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giovedì 7 dicembre 2017

È CADUTA UNA COLONNA A RACALMUTO. METAFORA? Sparita la pescheria, che fine farà l'area della ex pescheria?




Intanto, una proposta per non dimenticare ciò che è stato: 
si conservi la colonna caduta;
si salvaguardi la pavimentazione;
si facciano all'aperto presentazioni di libri, concerti, saggi di danza, mostre di pittura, conferenze, dissertazioni di filosofia, foto ricordo... nell'area della ex pescheria.



17 maggio 2012






27 luglio 2017










7 dicembre 2017






























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 Il 30 settembre 1891, centoventisei anni fa, il comune di Racalmuto aggiudicava a licitazione privata la locazione della Pescheria “in Via Fontana” al signor Taverna Carmelo “pel prezzo di lire 615.00 annuali”. 
,Accostando al sacro il profano, la Pescheria era addossata al muro della chiesa del Collegio di Maria prospiciente la strada che declina e conduce alla Fontana.  Un po’ più a monte, il mercato di frutta e verdura.
            Non tutti i comuni avevano un tale servizio a quei tempi. 
     Il 17 marzo 2005, forse per facilitare la sistemazione dell’impalcatura, la “storica”  struttura della Pescheria, fatta salva la colonna in ghisa sagomata, rimasta miracolosamente al suo posto, è stata “scancellata”,  smantellata pezzo per pezzo (muretto, mensole in marmo, cancellatina in ferro battuto), con l’acquiescenza dell’amministrazione comunale e, a quanto pare, con l'avallo della Sovrintendenza di Agrigento che di fatto l’avrebbe ritenuta "corpo estraneo" alla chiesa del Collegio di Maria a cui era addossata. 
Ma dopo oltre un secolo, come dimostra il Verbale di aggiudicazione della locazione del 1891, con tanto di sindaco e di segretario comunale ad avallarlo e a sottoscriverlo, non si può dire estranea alla memoria storica di una comunità, di un angolo della Sicilia, di un paese che è anche il paese di Sciascia, di Pietro D'Asaro, di Marc'Antonio Alaimo, dei tenori Salvatore Puma e Luigi Infantino, del poeta Giuseppe Pedalino Di Rosa, del prof. Giovanni Liotta, del miracoloso Padre Elia Lauricella,  del rinomato predicatore Calogero Parisi, di Santa Rosalia, della Madonna del Monte, etc. etc etc., e indicava una tradizione, un costume, un tenore di vita. Via!



ph ©piero carbone








domenica 12 ottobre 2014

IL "METODO LIOTTA". Contro i nemici della Bellezza



Ne ha sterminati milioni, eliminati a falangi, allontanati da insediamenti e postazioni, ha estirpato le loro colonie, ha ripristinato le antiche dimore e assicurato un sereno godimento alle generazioni future. Che uomo! Che possanza! Già, s’è capito!

Ebbene, per farla breve, l’uomo più bellicoso al mondo è un racalmutese.
Ha combattuto per  tutta la vita continue battaglie, e le ha vinte, non con armi e altri immorali arnesi che arrecano tanto male all’uomo, alle città, alle sue costruzioni, ma ha lottato e vinto con un metodo, il “metodo Liotta” che anzi le costruzioni dell’uomo difende e preserva: le ha preservate e difese da un nemico subdolo, cangiante, vorace e distruttore, quasi invisibile, noto come
 Anobium punctatum, 
Oligomerus ptilinoides, 
Nicobium castaneum, 
Kalotermes flavicollis e via distruggendo, nidificando, proliferando; 
ce ne sono  appartenenti alle popolazioni di Imenotteri,
Lepidotteri,
Isotteri o Termiti: 
suddivisi, gli infami, gli ingordi,  in caste organizzatissime e confederate tra loro;
efficiente la struttura, rigida la gerarchia, ordinate le mansioni: re, regine, soldati, operai. 







Sono insetti: per il loro attacco si stavano sbriciolando gli scaffali della Lucchesiana di Agrigento, i soffitti lignei  del Duomo di Monreale,  della Cattedrale di Agrigento, della Cattedrale di Nicosia, del Duomo di Cafalù,  del Duomo di Enna, i mobili della Certosa di Pavia, La Vergine Annunziata e il Ritratto di Ignoto di Antonello da Messina, la Sacrestia monumentale e la Sala Capitolare della Certosa di Garegnano in Milano, i pannelli della  Basilica di Santa Maria delle Grazie in Milano, il Coro ligneo di Morimondo (MI),  l’Altare del Wolvinio e Porta Maggiore nella Basilica di Sant’Ambrogio, i fregi in gesso del Castello della Zisa.





Il professore Giovanni Liotta,  accademico professore emerito, già docente di Entomologia nonché direttore del Dipartimento di Agraria all'università di Palermo e dell'Istituto della vite e del vino con sede a Marsala,  con quello che la sovrintendente di  Milano ha denominato "metodo Liotta" ha salvato i suddetti monumenti; ma anche in Cambogia stanno studiando il suo metodo.

Peccato però che quando lo hanno chiamato per tentare di salvare il moribondo pino di Pirandello era troppo tardi. Proprio per questa vicenda Sciascia lo ha semplicemente indicato come "un giovane professore dell'Università di Palermo" ma Vincenzo Consolo lo ha voluto conoscere personalmente e citare con nome e cognome.


Citazioni a parte, non è mai tardi per essergli grato, anzi, meritevole di un Nobel alla Bellezza, alla Bellezza salvata e ammirata da milioni di persone. Un ideale assessore alla cultura honoris causa. In un paese ideale. 

























Le immagini scannerizzate sono ricavate dal libro di Giovanni Liotta, Agli insetti piacciono le opere d'arte.

giovedì 1 agosto 2013

SAN CALOJERU DI NNI NÙ. Contributo di Giovanni Liotta







San Calojeru di nni nù
di 
Giovanni Liotta

Da piccolo sapevo che di San Calojeru ce n'erano tre:

San Calojeru di Girgenti, San Calojeru di Naru e San Calojeru di nni nù (quello da noi).

Si diceva che forse erano fratelli e che non fossero santi di pari livello: ovviamente si affermava con evidente tono campanilistico che quello di Racalmuto era il migliore, come, del resto si affermava per tante altre cose, con la seguente rima:

San Calojeru di Girgenti fa li grazzii e si nni penti;

San Calojeru di Naru fa li grazzii a manu a manu;

San Calojeru di nni nù fa li grazzii a dù a dù.


In altri termini quello di cui fidarsi era quello "di nni nù", perché addirittura ti concedeva una grazia doppia rispetto a quella da te richiesta.



Link correlato:
http://archivioepensamenti.blogspot.it/2013/07/viva-viva-san-calo.html

mercoledì 31 luglio 2013

VIVA VIVA SAN CALÒ?


MODI DI DIRE E MODERNITA'



Viva Viva San Calò

Evviva, evviva san Calogero. 

E' soprattutto l'espressione di un sentimento di venerazione ma è anche un'invocazione.
Inoltre, si dice quando taluno vuole o pretende consenso o pensa che questo consenso sia facile da riscuotere facendo emergere superficialità nel non valutare le difficoltà connesse a qualsiasi iniziativa.

Chiddru voli sempri viva viva san Calò!

Quello vuole sempre evviva, evviva san Calogero!


A chiddru ci pari sempri viva viva san Calò!

A quello sembra sempre evviva, evviva san Calogero!

Viva Viva San Calò, dunque, è soprattutto un modo di dire che deriva da un festoso modo di fare.

Cosa non è permesso infatti durante la processione del san Calò di Giurgenti?

La danza della vara (il fercolo) con la statua, gli abbracci, i baci, i toccamenti della statua nera, i bambini sollevati e strusciati alla miracolosa effigie, gli arrampicamenti dei più nerboruti, focosi e devoti portatori a costo di calci pugni sputi e bestemmie, il lancio dai balconi delle pagnotte guizzanti come palle di fuoco scagliate da antiche catapulte.

Ma Monsignore ha detto basta.

I tempi sono duri per tutti e cambiano anche i modi di dire e i modi di fare nonostante associati a popolarissimi santi.

Anche per san Calò la musica cambia e non gli si può dire sempre e comunque "viva viva". Ecco il perché del punto interrogativo nel titolo del post.

A Naro già da qualche anno hanno corretto teologicamente l'invocazione con Viva Diu e San Calò, rammemorandolo con una pioggia di bigliettini fatti fioccare dai balconi.

Il pane non si lancia più ad Agrigento e a Porto Empedocle eppertanto non si raccoglie da terra ma si dà in offerta alla chiesa che lo ridistribuisce, benedetto, ai fedeli e ai bisognosi.

Una tendenza a smussare gli eccessi, a correggere il senso teologico. Ma l'ultima sortita dell'arcivescovo di Agrigento mira al cuore della festa,  al nocciolo tipico, agli aspetti più rozzi e sanguigni. Per l'arcivescovo di Agrigento, come scrive amareggiato nella lettera inviata agli agrigentini, questa non è fede, questi sentimenti non sono religiosi, questa non è una festa tutta cristiana.


L'agrigentino Elio Di Bella echeggia altri umori e, nel commentare la canonica presa di posizione, titola il suo post "MONSIGNORE LASCI PERDERE".

Ricordo che un altro Monsignore, venticinque anni prima, riunì nel Seminario di Favara i rappresentanti dei vari comitati per i festeggiamenti in provincia invitandoli a solennizzare le feste soprattutto con preghiere messe e digiuni. Più sobrietà e meno eccessi. Eravamo in molti ad ascoltare. Con quale risultato?

Difficile impresa modificare inveterati usi. E' sempre l'annoso dilemma delle tradizione: preservarle o innovarle? Correggerle in senso liturgico e teologico o lasciarle discutibilmente paganeggianti?
Ne sanno qualcosa i racalmutesi con la devozionale cavalcata fino in chiesa e la rissosa presa del "Cilio". E bene mi è finita quando introdussi la figura della contessa nella storica recita cinquecentesca: senza nulla alterare nella sostanza, si badi bene, altrimenti...

Ma qui non si vogliono discutere magni argomenti, si è voluto semplicemente chiosare un modo di dire legato a modi di fare che, oltre ad essere come sono, ispirano tante cose. Anche poesie.

c’è cu bastimìa

Lu populu prega. Lu Santu camina. 
Lu miraculu s’aspetta quannu veni. 
Cu jetta hiuri, 
cu cci tira pani, 
la banna sona, lu parrinu veni
 ppi diri 
“chista nun è la vera divuzioni”. 
Tuttu si ferma. 
Ognunu si cummovi. 
Nnomentri lu tammuru tammuria. 
Volanu prijeri. 
C’è cu bastimìa.

Il popolo prega. Il Santo procede. / Il miracolo si attende quando viene. / Chi lancia fiori, / chi gli lancia il pane, / la banda suona, lu parrinu veni / per dire / “questa non è la vera devozione”. / Tutto si ferma. / Ognuno si commuove. / Nel mentre il tam-buro rulla. / Volano preghiere. C’è chi bestemmia.

Da Venti di sicilinconia, Medinova editrice, Favara 2009




Il post di Elio Di Bella


 


© Piero Carbone
Foto proprie











domenica 21 luglio 2013

SE UNA TIPOGRAFIA CHIUDE



Corrispondenza con Aurelio Cardella dopo la notizia della chiusura della Tipografia e Stamperia d'arte "Adriana" di Palermo.
Per me la rete non è solo un canale comunicativo con vecchi amici e fonte di nuove conoscenze ma un intreccio di nuovi stimoli.

Piero Carbone: 

Caro Aurelio, mi hai fatto venire un'idea, mi piacerebbe pubblicare sul blog un tuo articolo con una carrellata e qualche aneddoto riguardanti gli artisti di cui hai stampato le serigrafie: chiude una tipografia ma ne conserviamo la memoria (della sua attività e quella del suo valore culturale). Con qualche foto in jpg. Ti va?


Aurelio Cardella:
Ottimo, carissimo Piero, di ricordi ne avrei tantissimi. Dopo aver meditato con quale iniziare, ti invio questo mio "articolo", fammi sapere se va bene, grazie.

Piero Carbone:
Va benissimo. Quello che hai scritto è una bella testimonianza, significativa non solo per te, nell'ordine affettivo, ma anche oggettivamente, per la memoria di una città, per la cultura in generale, e in particolare per l'espressione artistica nella sempre provinciale e sorprendentemente avanguardistica Palermo. Allegami qualche immagine di serigrafia in jpg. Se ne hai copia, alla fine, potremmo fare una mostra (ma questa è un'altra idea).

Aurelio Cardella:
Questo è il primo aneddoto, ma potrebbero seguirne altri, a presto invierò un jpg.




Luigi Guerricchio (Matera 12/10/1932 - 25/6/1996)
Raccoglitrici di tabacco, serigrafia, Palermo 1974

INIZIAI CON GUERRICCHIO
di
Aurelio Cardella


Devo ringraziare Renzo Meschis se ho iniziato la mia carriera di stampatore d'arte.

Era il luglio del 1974, ero appena tornato dal servizio militare, ed ero pronto per il mio start up nella vita.
Renzo Meschis aveva da poco aperto una galleria d'arte "Ai Fiori Chiari" divenuta in seguito una delle più prestigiose gallerie d'arte moderna d'Italia. Renzo si presentò a me proponendomi la stampa di una serigrafia di un artista conosciuto alla Biennale di Venezia, Luigi Guerricchio.

Per la verità, non avevo mai stampato una serigrafia d'arte, né altri l'aveva stampata qui in Sicilia, ma forse preso dall'incoscienza giovanile, o dall'entusiasmo, accettai.

Partii con Stefano, mio fratello, in vespa, alla volta di Roma. Ospite di Mafalda Calvani, responsabile della filiale romana della Argon Service, azienda leader europea del settore della serigrafia, la quale mi mise a disposizione i laboratori ed il personale per insegnarmi i piccoli segreti della stampa serigrafica.

Il soggiorno romano mi diede l'occasione di conoscere una realtà ben diversa di quella palermitana; non poche furono le difficoltà sostenute durante il viaggio Roma-Palermo, una che ricordo in particolare fu la grandinata estiva a Lagonegro dove rifuggiandomi sotto un cavalcavia, un operaio dell'ANAS, guardando la targa, mi disse che ero pazzo ad avventurarmi così in autostrada.

Tornammo da Roma con il portabagagli della Vespa 150, con la quale affrontammo questa impresa, pieno di colori, racle, nylon, e tanta ansia e curiosità per iniziare l'impresa.

Effettivamente, fu un'impresa in quanto l'opera del formato di cm. 70 x 100 venne stampata in un pied a terre di via Carducci un po' angusto, dove ci destreggiammo parecchio a stendere i fogli per farli asciugare.

La soddisfazione fu tanta poiché l'opera piacque sia all'artista che al committente, realizzai altre due opere di Luigi Guerricchio - che purtroppo ebbe breve vita - e da quel giorno iniziò la mia carriera di stampatore d'arte.

sabato 20 luglio 2013

SE SCIASCIA NON FACEVA I NOMI


Quali saranno state le arcane motivazioni della ritrosia sciasciana a non fare i nomi dei compaesani?
Una volta, a proposito del pino  malato di Pirandello citò per la cura  "un giovane che è molto bravo in queste cose, è di Racalmuto e insegna alla Facoltà di agraria".
Un'altra volta parlò del "notaio che verseggiava" e un'altra volta ancora scrisse sull'Espresso di un giovane sindaco molto attivo e che si dava da fare. 
Ma anche a proposito della sicilitudine la riferì a un giovane scrittore palermitano senza fare il nome. 
Chissà per quali ragioni! 
Poi arrivano i Consolo e i Di Marco e mettono tutto in chiaro. 
Chissà per quali altre ragioni ancora!

venerdì 19 luglio 2013

CONSOLO, I RACALMUTESI E IL PINO DI PIRANDELLO

"Speriamo che il nuovo, giovane pino possa stendere in futuro la sua pietosa chioma...". 
Questo si augurava Vincenzo Consolo nell'articolo "Il pino di Pirandello" inserito nel volume Di qua dal faro pubblicato dalla Mondadori nel 1999. 
Al vecchio pino acciaccato e al nuovo da coltivare si era interessato un racalmutese di cui con piacere riportiamo la sua testimonianza.
A proposito del nuovo pino,  non nascondendo una certa ansia, ci sarebbe da verificare fino a che punto si è realizzato il pronostico della pietosa chioma.  P.C.



PER SALVARE IL PINO DI PIRANDELLO

Testimonianza di Giovanni Liotta

Docente emerito di Entomologia dell'Università di Palermo

Circa 25 anni fa, ho incontrato al mio paese (Racalmuto) Leonardo Sciascia che, come al solito, nei pomeriggi faceva la sua passeggiata davanti al Circolo Unione. Mi ha chiesto come mai mi trovassi in paese e gli ho detto che stavo tornando da Agrigento, dove ero andato a verificare lo stato fitosanitario del Pino di Pirandello che era stato attaccato da grossi insetti chiamati Capricorni o Cerambicidi. Mi ha fatto alcune domande alle cui risposte mi sembrava molto interessato. Mi sembrava che tutto si fosse esaurito lì. Senonchè dopo alcuni mesi ritrovo alcune sue profonde riflessioni in un suo libro (Leonardo Sciascia – Fuoco dell’anima – Conversazioni con Domenico Porzio – Mondadori Editore) e che riporto:


“D. Porzio: Com’è questa storia che il pino di Pirandello sta morendo? È una malattia?
L. Sciascia: Sta morendo perché è vecchio. Ma si può salvare, con tutti gli accorgimenti tecnici che ci sono oggi. Soprattutto occorre liberarlo dal selciato: le radici non respirano, l’acqua non penetra. E poi bisogna affidarlo alle cure di uno specialista. C’è un giovane che è molto bravo in queste cose, è di Racalmuto e insegna alla Facoltà di agraria. Mi ha detto che l’amministrazione comunale non risponde a queste sollecitazioni: perché si sono messi in testa di sostituirlo con un pino di plastica.
D. Porzio: No, non è possibile!
L. Sciascia: Questa è la classe dirigente – per meglio dire digerente – che preferisce fare il pino di plastica piuttosto che salvare quello vero.. ed è così per tante, tante altre cose…..”

Dopo alcuni mesi, venne a trovarmi a Palermo lo scrittore Vincenzo Consolo, perché, mi disse, voleva conoscere il giovane di cui aveva parlato Sciascia e sapere qualcosa sulla “salute” del Pino di Pirandello. Anche di questo nostro incontro lo scrittore riferisce in un suo libro al capitolo intitolato “Il pino di Pirandello” (Vincenzo Consolo – Di qua dal faro –Mondadori Editore)



“ Un tronco morto, pietrificato,, un alto pennone scabro simile a quelli su cui si torcono, s’innarcano nello spasimo i corpi dei due ladroni nella Crocefissione d’Anversa di Antonello, è ormai il pino di Pirandello.
Una tromba d’aria ha tranciato la chioma del famoso albero del Caos...
Era un albero vecchio e malato il pino del Caos…
Il giovane “molto bravo” di cui parla Sciascia è il professor Giovanni Liotta, il quale evidentemente era riuscito alla fine a convincere le autorità a farsi affidare la cura del vecchio albero malato. E aveva innanzi tutto liberato gradualmente le radici, anno dopo anno, piastrella dopo piastrella, dalla coltre di pietra. Il pino così aveva preso a rivivere, fino a che non è stato ucciso, con lo strappo della chioma, dalla tromba d’aria…
Il Professor Giovanni Liotta aveva pensato provvidenzialmente a suo tempo a far germogliare dai semi del vecchio pino tre pianticelle. Quando queste saranno cresciute, ne sceglierà una, la più robusta, a sostituire il genitore, il tronco senza vita attuale…”

domenica 14 luglio 2013

ZÙCUTU ZÙCUTU, MASTRU CALÌ

Un modo di dire buttato lì su un social network suscita curiosità, eccita ricordi, provoca apporti immediati e impensati tramite la rete, ramifica in affini reperti paremiologici (che attengono i proverbi insomma). 
Alla fine, da questa moderna palestra filologica e memoriale, il modo di dire ne esce arricchito. Sempre suscettibile di ulteriori arricchimenti. Riguardo il suo utilizzo potrebbe modernamente sostituire la "coazione a ripetere" freudiana.  Freud a parte, chi è che non ha le proprie fissazioni, nel bene o nel male?



Zùcutu zùcutu, mastru Calì.

  • Rita Grazia Mattina, Salvatore Conte, Vincenza Grizzanti, Giuseppe Leone, Angelo Campanella, Lorenzo Capostagno, Antonio Calma, Giulia Lombardo, Oriana Cammilli, Luciano Carrubba, Pixel Evolution, Marianna Manta, Rosean Faraone Hossain, Ezio Noto,  Delfina Manolo, Nicola Romano e Marco Cattivo Costume piace questo elemento.
  • Antonello Scarpulla: Io sapevo che lo zucutu zucuto significava "un'altra cosa" o è proprio quella?

  • Gaetano Restivo: Non era Zzucuzu'?
  • Piero Carbone: Lo sentivo dire a mia nonna, zzùcutu zzùcutu, ed era il ritornello mimato e cantato dei ragazzacci che facevano il verso a Mastru Caliddru l'uorbu che suonava il violino per le strade ripetendo fino all'estenuazione sempre la stessa melodia un po' strascicata. Un bel giorno, mastru Caliddru non ne poté più di quell'insolente tiritera e sbottò con una irripetibile risposta. Il gesto stizzito di scagliare il violino rese più drastica la sua risposta.
  • Gaetano Restivo: Comunque, nel lessico familiare si usava per dire, in maniera brusca  "e smettila di fare sempre questa cosa, non la finisci proprio piu"; oppure: "quando ti ci metti non la finisci proprio più e diventi anche fastidioso e non se ne può più di te". 
    I modi di dire sono sintesi estreme, trasfigurazioni, modelli. E "chinnicchi-nnacchi " ?
    Attendo illuminate spiegazioni x chinn...

    Piero Carbone: Dovrebbe derivare dal latino, secondo Sandro Attanasio, in Parole di Sicilia, Mursia editore, Milano 1980

    Gaetano Restivo: Ergo...

    Piero Carbone: nec hic nec hoc

    Calogero Messana:

    Ciao Piero, forse era questo il vostro Mastru caliddu l'orbu?


    • Piero Carbone: Straordinario! Grazie. Ma la foto è stata scattata a Racalmuto? Oppure si può dare il caso che Mastru Calì l'uorbu era un ambulante.
    • Calogero Messana: Ciao Piero, dalle pagine di Donna Luisa risulta che veniva da un altro paese per la Novena di Natale. Troppe coincidenze! La foto è stata a Montedoro scattata davanti la casa dei Caico. Dovresti accertare se vi era anche un violoncellista a Racalmuto. Visto che era cieco sicuramente si muoveva col compagno vedente.
    • Piero Carbone: indagherò, grazie.


      Si precisa che Donna Luisa è la Hamilton Caico della quale diffusamente ci si è occupati in diversi post di questo Blog: da vera antesignana ha coltivato la fotografia realizzando un'interessante ricognizione di luoghi e personaggi siciliani. 

      La risposta piccata invece con la quale Mastru Caliddru l'uorbu apostrofò i monellacci  diede origine a questo singolare duetto:


      - Zùcutu zùcutu, Mastru Calì.

      - Li buttani di li mammi. 

sabato 1 dicembre 2012

VINCENZO CONSOLO E LE CHORISIE DI PALERMO.






Metafora o presagio?

Mi sovviene un ricordo legato alle corisie, rievocate nel romanzo Lo spasimo di Palermo.

Alla fine di un convegno, Consolo fu incuriosito dagli alberi panciuti e spinosi detti anche alberi bottiglia che costeggiano il Viale delle Scienze di Palermo e mostrò il desiderio di conoscerli meglio. 
Anch’io mi trovai con altri convegnisti a sentire quella richiesta. Gli promisi che avrei fatto delle ricerche in proposito e gliele avrei comunicate. Lui gradì molto e mi ringraziò.





Dopo qualche tempo, in occasione della presentazione di un libro sul restauro della chiesa dello Spasimo, gli consegnai una busta con le notizie sulle chorisie speciose, richieste a mia volta al professore Giovanni Liotta della facoltà di Agraria. 

Quando nel 1998 uscì il romanzo Lo Spasimo di Palermo, provai piacere nel ritrovarvi le corisie o alberi del Kapoc; nella scrittura consoliana, le asettiche notizie della botanica rappresentavano soltanto un pretesto: 

“i tronchi rigonfi delle corisie, la minaccia d’ogni lancia o spina, la meraviglia d’ogni rivolta e attorcimento, l’espansione sinuosa delle ramaglie, il fitto cielo delle foglie, la caduta delle radici e lo strisciare gropposo delle magnolie”.


Insomma, quasi una metafora. O, dilatandola nel tempo, e generalizzandola su storici ed esistenziali attorcimenti, un presagio?











http://regalpetraliberaracalmuto.blogspot.it/2012/01/per-vincenzo-consolo-di-piero-carbone.html