
Ormai son trascorsi due anni.
"Però è scritto guardando al modello di D'Arrigo", tiene a precisare a telefono Federico Messana, nell'annunciarmi l'invio del suo racconto.
I lettori sono avvisati: la storia se si vuole è minimalista ma la lingua è tutto un crepitio di suoni, una danza di parole, da apprezzare perché veicolano una storia ma contemporaneamente o sopratutto mettono in evidenza se stesse.
Per renderlo più consono ai tempi e ai ritmi di lettura di un blog, lo suddivido in due parti: per gustare meglio le parole, non solo il racconto ma anche il raccontare.
Il titolo, infine, traslandolo dal senso proprio in quello figurato, esula dalla storia a cui nel racconto si riferisce, e rimanda allusivamente ad altre storie, quelle di sempre, alle complicità tirate in ballo per procacciarsi qualcosa o ingraziarsi strumentalmente qualcuno, che si riveleranno a loro volta figurato "fumo" o concreto "arrosto". P. C.
FEDERICO MESSANA
I ragazzi di Monte Ottavio
Racconto ambientato negli anni sessanta in un paese
siciliano
Cinque amici alla
disperata ricerca di sigarette
Un
pensiero a Peppi e Totuccio
che
ci hanno lasciati per sempre.
"Che sigarette susprate
?",
addumannò Totuccio sdillaniato
ed
allupato con una taliata
isterica, issando le ciglia verso il cielo che sperluciava come specchio, con
al centro un sole rosso di fuoco lavico. L'avidità che guttuliava
da
quella semplice domanda era talmente soprapelle che non una disinteressata
informazione voleva, ma carcariava
una
pressante richiesta d’aiuto, un "datemi da fumare perché non ne posso
più", come spissiava
fare.
"Palmall, suspriamo! Ne vuoi
una?", gli rimandò una voce con aria babbiona
e
sonnolenta, lanciandogli addosso una nuvolaglia fumosa che colpì il ciuffo di
capelli sparpagliandoli in aria, in modo informe. Ciuffo che Totuccio, com'era
aduso fare, con mossa repentina e meccanica riportò immediatamente in avanti a
coprire la spaziosa e lucida fronte. Era un vero dilemma quel ciuffo
malandrino: spostato in avanti gli lasciava nuda la lucida nuca, sistemato
all'indietro lasciava intravedere una fronte spaziosa, in mezzo, sede naturale,
gli dava le sembianze di un gallo cedrone nell’atto di emettere un
chicchirichì.. Nel porre quella domanda, prima smorfiò con aria incredula,
quindi ridacchiò d’un riso tutto grifonesco.
Federico, senza attendere risposta
di voce, poiché erano stati sufficienti un movimento di collo ed una
dilatazione di guancia, seguiti da una scaccaniata
gallinacea, estratta una sigaretta dal pacchetto di Palmall ancora pieno, che
barbagliava come specchio al sole per via della coloratissima confezione
sigillata da una lucida pellicola trasparente, l'allungò a Totuccio. Questi,
con l'avidità di chi è a digiuno da tempo assai remoto, accarezzandosi la nuda
e lucida nuca che sembrava il culo bianco di una verginella e sparpagliando
all'indietro, con gesto repentino e studiato, il ciuffo di capelli
scompigliati, in pochi secondi accese la sigaretta e cominciò ad emettere alte
volute di fumo, per rifarsi della prolungata astinenza.
Passeggiando su e giù,
giù e su per la piazza, in silenzio e senza prescia
, i
cinque amici assomigliavano ad uno di quei treni merci del capoluogo che, tra
sibili di ciminiere e monotoni nfunfù, nfunfù di pistoni e stantuffi
arrugginiti, avanzano lentamente con un ciuff! ciuff! emettendo un denso fumo
acre e nero che ti scompiscia
le
tonsille.
Manco il tempo per due giri di boa che le sigarette erano già ridotte
a cicche; i cinque amici le lanciavano a distanza col dito medio trattenuto dal
pollice e quindi liberato come una fileccia
. In
segno di sfida, di strafottenza e di momentanea abbondanza, contro
l’onnipresente e tirribilia malasorte.
"Fumiamo ancora!", disse
con enfasi Federico.
Ed estratto dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di
Lucky Strike distribuì una sigaretta a testa. Il fumo delle sigarette appena
accese andò a sospingere il vecchio che lentamente cominciava a sfumuliare
verso l'alto.
Mai forse quella piazza aveva visto tanta abbondanza di fumo,
nonostante sentisse il lingueggiare del fuoco di caldo, né tantomeno i cinque
amici che, con evidente voluttà, stavano finalmente gustando ed assaporando il
loro momento di gloria.
Gli occhi di Totuccio commentariavano da soli, era come
alloccato, e da qualche momento scambiava, ricambiato, cenni di soddisfazione
cogli amici, ora aggrottando l'alta e nuda fronte traslucida, ora con sorrisi
peccaminosi di compiacimento accompagnati da scàccani
indescrivibili, la cui eco rimbombava dal negozio del barbiere alla farmacia,
al bar, al tabaccaio; finalmente vomitò la domanda che tutti attendevano da
quando s'era aggiunto al vaporoso crocchio di sfessati.
"Da dove arrivano queste
sigarette così profumate?", addumannò sommessamente e quasi sottovoce per
non azzoppare il magico e peccaminoso momento, inimmaginabile fino a qualche istante
prima. Intanto che poneva la domanda voltava e rivoltava la sigaretta, leggeva
la marca, annusava l'odore fumoso ed il fumo odoroso. Ma soprattutto si
sgargiava
le guance con risate di compiacimento.
"Fuma, e non pensarci! Ieri è
arrivato un mio cugino dall'America Argintina!", gli rispose Salvatore che
subito trovò cenni di conferma dagli altri con un: "Vero è, proprio ieri
arrivò Angiluzzu!".
"Allora, evviva l'America
Argintina e gli americani argintini, evviva Angiluzzu!", rispose Totuccio con
una straordinaria scaccaniata che si udì a notevole distanza.
"Evviva l'America, le Palmall e
le Lucky Strike", gli fecero eco Federico, Peppi, Fefè e Salvatore.
I cinque, allineati come in
formazione d'attacco, andavano avanti e indietro, su e giù, avvolti da una
densa nuvolaglia, effetto delle veloci susprate il cui ritmo avrebbe ridotto in
fumo un'intera pagliera in tempi rapidi. E scialibando
come
dentro un miraggio, si gettavano scariche di scorreggette per saluto, trottando
per la piazza come in sella a delle onde e qualcuno li inseguisse a calci nel
didietro. Per Totuccio giunse a malincuore il momento del doloroso commiato,
che lui definiva doveroso ed ineluttabile per via dei gravosi impegni presi con
la famiglia. Era o non era gestore del bar? Doveva quindi correre e controllare
che tutto filasse liscio.
"Grazie delle susprate, ma ora
devo tornare al bar a controllare che qualche disgraziato allupato
non
rompa il vetro della macchinetta, com'è successo stamattina. Affamati come sono
di fumo, sarebbero capaci di svuotarla di tutte le sigarette americane di cui è
stata riempita 'stamatina", disse Totuccio, facendo cenno d'andarsene con
aria solenne da capufficio indaffarato e non un quilibet qualsiasi che passa
inosservato, ti passa sotto il naso e manco lo vedi.
"Aspetta!", gli disse
Federico. "Tieni queste due per fumarle più tardi, anzi tieni tutto il
pacchetto, visti gli impegni gravosi che ti aspettano. Ti pare
bastevole?".
"No, prendi questo!" gli
fece eco Fefè, in vena di cerimonie e complimenti, porgendo un altro pacchetto
a Totuccio.
"Fumati questo Lucky
Strike!", aggiunse Salvatore per non essere da meno.
"Il mio ti fa schifo? Prendi
anche questo HB!", l'apostrofò Peppi, con fare sardonico.
E così dicendo porsero i pacchetti a
Totuccio che accigliato, con fare tra il commosso, il perplesso ed "il non
so quale miracolo sia successo", la fronte aggrottata ed i capelli sempre
più scompigliati all'indietro, stringendosi la cinghia dei pantaloni si avviò
verso il bar scaccaniando più che mai "bastevole! bastevolissimo!",
tutto pomponella e teatranteria
,
rischiando di restare assincopato dallo sforzo, ed annacandosi
sui
fianchi come cavallo arabo, per via di una pàpula
al
piede destro che lo faceva zoppiare vistosamente.
Avanzava annacandosi vistosamente, infatti, come o più d'un anziano
arcivescovo che di solido ha ormai soltanto un pesante crocifisso di duro
metallo appeso al petto, e si muove lentamente quasi sospinto dall'aria mossa
da un nugolo di seminaristi petulanti che lo attorniano costantemente.
Con
cruccio e risentimento, da giorni andava sostenendo che zoppiare, per una
persona normale era normale, ma non per lui che aveva intrapreso la carriera di
agrimensore, pregna di impegni e responsabilità, come e più d'un vescovo; se
infatti la cosa è plausibile per un prete, che può zoppiare sotto la nera veste
e la gente non se n'accorge nemmeno, non altrettanto per uno che studia per
vescovo, perché il vescovo sfigura se non è fatto bell'e fatto, per via dei
suoi impegni istituzionali!
Giustappunto come un agrimensore, che deve lavorare
di metro, piantare paletti, fare misure, avere a che fare col Catasto. A quelli
non puoi presentarti zoppiando, come una mammatessa
infilata per culo, non ti prendono in considerazione. S'annacava insomma, per
via della pàpula, come se gli avessero titillato le tonsille inferiori, o come
se gli avessero messo una mano nel sottocavallo, sprovando col medio lo sbocco
di bocca, il culo ovverossia, come una gallinella se ha l'ovo.
Si muoveva
come un cavallo che trasporta un grosso carico, incordato al sottopancia, ed
arranca a fatica sotto il pesante fardello sculettando ed annacandosi ora a
destra ora a manca, ondoso a simula di onde.
Così avanzava Totuccio verso il
bar, scaccaniando
,
girandosi di tanto in tanto verso gli amici, alzando la mano destra, per
mostrare la sigaretta fumosa, che sembrava ridere del suo riso, e per un segno
di doveroso gesto di ringraziamento. Fosse allegro e di buon umore, o triste,
turbato ed inquietato, Totuccio reagiva a scàccani, con caratteristiche risate
a crepapelle che solo lui sapeva dosare con assoluta maestria. Come quando, per
celia, nei lidi di Girgenti gli amici gli buttarono a mare le mutande, e lui li
inseguì per la spiaggia, come una giumentella non più tenuta per la criniera,
con una mano davanti ed una dietro, scaccaniando contrariato con farsa da
tragediatore. E non la finiva più di sgridiarli: "Disgraziati, mi avete
spareggiato il corredo appena ingignato!"
.
I quattro, che fino a quel momento
avevano tenuto un rispettabile contegno di circostanza, come santi di màrmaro
per celiare la farsa, come chi col fatto appena accaduto non c'entra e con
indifferenza se ne sta in disparte a commentare l'accaduto, quando Totuccio
infilò la porta del bar e fu orbo alla vista, si sgargiarono in uno squasso di
sonore risate, piegandosi in due e trattenendo a stento le lacrime, dimenandosi
a gettasangue: come se stavolta, la mano nel sottocavallo ce l'avessero proprio
loro, sprovati come gallinelle nello sbocco di bocca e titillati nelle tonsille
inferiori.
Di buon'ora, come tutti i santi
giorni, i quattro amici, s'erano incugnati
nel
bar di Totuccio, per ammazzare le lunghe e monotone ore del mattino. Scherzando
o giocando a carte, o pomponelleggiando con qualche canzoncina, attendevano che
i soliti avventori, amici o conoscenti, giungessero per ordinare un caffè che,
questa era la prassi, veniva offerto a quanti si trovassero nel locale.
Non un
caffè a testa, s'intende, ma tirandosi il paro e disparo per chi dovesse
iniziare per primo, una miserabile sucatina
dalla stessa tazzina che, passando di bocca in bocca, bagnava soltanto la
lingua e soddisfaceva appena il palato; era come alliccare una sarda e trarne
soddisfazione ma non sostanza, era come un mangiare a merdarella.
Era passato
il capufficio, quindi il postino, infine il maestro.
La cerimonia, che da
messinscena da opera di pupi si trattava, s'era ripetuta come da copione, e
come da prassi consumata la stessa sigaretta nazionale stava facendo il giro di
bocca tra gli amici. Susprandola
delicatamente per farla durare il più a lungo possibile ed in punta di labbra,
quasi fosse una gara di resistenza.
Spesso prese a credenza
dal
tabaccaio, che a malincuore segnava su una libretta che aumentava di spessore
un giorno dopo l'altro, le sigarette si vedevano solo di lontano, come le
reliquie sotto vetro dei santi nelle processioni, che passano sempre a quella
certa distanza, calcolata giusta, per non essere scandagliate se sono finte o
vere, rose o rosate, di osso o di cera.
Ogni tanto s'affacciavano sulla
piazza e con la mano a parocchio sulla fronte spiavano il sole, facesse
abbaglio o meno. All'imbrunire occhiavano al sole, alla luce che restava: e
vedendo che era giusto il momento in cui il sole al tramonto sembra mandare,
come estremo addio, un ultimo grande sprazzo di luce, attimi di vero fulgore, e
poi è tutto un precipitare della notte, si animavano di passione, si agitavano
con spasimi di cuore. Sembrava un gesto ridicolo, quasi volessero salutarlo da
soldati.
Per quella mandria di giovanotti sembrava una specie di rito matino e
serotino, un segno di ringrazio per avere visto ancora il giorno e perché
speravano di rivederlo ancora domani, al tramonto ma anche al sorgere, alto e
immenso sole di fuoco, quando il cielo si alzava in un'altissima curva di
fiamme. Anche se poi spesso lo maledicevano perché soprattutto nei giorni di
mezzagosto lo scirocco africano, di cui si nutrivano mattina, mezzogiorno e
sera, si poteva pigliare e mettere nei sacchi; sempre in attesa che soffiasse
un venticello spiritoso in mezzo all’aria pesante che si respirava in quella
piazza, una fresca borietta di grecale che rinfrescasse i pensieri.
Poi, o
perché la calata del sole era stata troppo rapida e forte da seguire, o perché
si spremevano troppo a smirciare
in
quella luce, come in cerca di qualcosa, gli occhi pigliavano a fare lacrima.
Lacrima di un lontano pianto, segreto, che cadeva di nuovo dentro, come in una
tazzina di porcellana, dove si conserva per essere usata ancora, perché anche
quella sorgente si essicca col tempo, la vita stessa si essicca. Ma non erano
lacrime di pianto, pareva non le sentissero nemmeno e non se le asciugavano.
Erano lacrime d'occhi, lacrime che si lacrimavano da sole, poiché lontano era
il fumichìo delle reste di zolfo.
I loro occhi sembravano rigonfi di tutte le
lacrime che possono riempire un occhio, e l'occhio trattenere e mai versare, di
tutte le lacrime di cui è capace l'animo umano quando è veramente felice e
quando è veramente infelice, quando felicità e infelicità non si sa più che
cosa precisamente sia l'una e che cosa sia l'altra.
Non avevano sosta, avevano
trovato un posto che già ne scandagliavano un altro, come un cane che va
cercando col fiuto il posto dove fare gli affari suoi. Che poi manco di guerra
venivano, per essere così apatici, sempre con l'uovo storto, ma stavano come
gli altri sotto quella gran coppola di cielo dove non c'era solo sventura.
Assomigliavano al cane di Nardazzu, caduto sulle zampe davanti, col petto a
terra e la lingua di fuori, che fa bave e schiuma, una forma umana mezza
confusa, grigia che si faceva nera, anche se il sole splendeva alto e rosso di
fuoco; se ne stavano con profilo grifonesco, fisso, cogitoso, con una mente
strambata. Quasi figura sfigurata del genere umano, a cuocere nel quaglio del
loro massacrante stillicidio, o imboattati sani sani e conservati vivi sotto
pece: mala tempora che correvano a precipizio.
Parlavano e parlavano, di cose di
nullo conto, con voce scannarozzata che sfuggiva dalla bocca come un
mugulamento, una nota lamentosa che si sperdeva in tanti respiri strozzati;
fino al punto di rendersi scienti d'avere perso il filo del ragionamento, o
d'averlo ritrovato e averlo seguito tutto fino in fondo, fino all'altro capo,
che era la stessa cosa che perderlo o riperderlo. Allora ricominciavano daccapo
con sempre meno interesse di prima, come avessero un organetto e lo suonassero
senza suono.
Si giravano e rigiravano senza sosta, in un culo di sacco, come
fosse sempre il tramonto, che colorava il loro viso di sfumature accoranti di
malinconia, e sentissero il calamitare del sole per aria, senza potergli
resistere, e tramontassero anche loro dietro il sole ma all'opposto del cielo,
sottoterra. Oppure, quelle bocche d'oracolo se ne stavano mute come fossero di
roccia, perché non avevano nessun bisogno di parlare con parole, quello che
pensavano lo portavano scritto in faccia.
La carestia di fumo era perenne,
scotrumbava
a lingue di fuoco, perciò non potevano dire: "Incasciamoci
oggi
un po' di fumo, mettiamoci al sicuro con una bella scorta che domani forse sarà
la nostra manna e minna
. La
carestia che antivedettero i nostri, anni prima, adesso è passata! No, adesso è
una delle peggiopeggio mai viste". Ma non c'era un'unghia, una scarda
di
fumo da incasciare come scorta per il domani. Non c'era da stare allegri, come
quando s'appresentava il tantaratàtantà del getta bandi Lisina che mazzoliava
sul tamburo a tracollo per gettare un bando di dazio, o rincaro di pane, o di
sale, o di chinino di Stato, tanto per dire. Loro s'immedesimavano in questo
stato di cose miserrime, e sentivano ch'era sempre la loro pelle che Lisina
mazzoliava sul tamburo, era per essi che sonava a morto il gettabandi.
Le mani
acconghigliati alla bocca, la faccia di giallocanario come un melloncino di
Malta, gli occhi un po' a lacrima un po' a riso che fissavano il vuoto, come se
le poche parole uscissero di bocca da sole e loro sbrigassero altre faccende
con la mente; il gettabandi diventava voce e tamburo, come la voce del
grammofono che getta fuori le parole dal disco, e anche se sono parole di
sangue, a lei, alla tromba, non fa né caldo né freddo.
Del resto il gettabandi
non è il cantastorie che espone il cartellone coi pupi e fatica, travaglia,
soffre, si contorce, muove i fili di polso suo, fa l'opera di persona, sopra e
sotto al fatto successo, vive e fa vivere, in una sola parola, la parte. Lui è
solo ambasciatore di finanza e dogana, d'ordinanza di sindaco e prefetto, porta
la pena che gli mettono in bocca, è l'eco che ripete quello che gli gridano.
Quel gettabandi batteva e mazzoliava sulla loro pelle, essiccata in qualche
chiarchiaro
della zona, amplificava la loro miseria e non solo in fatto di fumo, perché
questo era solo una conseguenza dell'altro più grave, atavico: la miseria!
Morbo, che se investe come Dio comanda, sembra un poco tutti gli altri morbi
messi assieme.
Intanto se ne stavano lì, come accapigliati e confusi in una
mischia furiosa col tempo, la testa leggia
,
acquagliati tra tavoli e sedie, col grande patema d’avere una zita
,
s'agonivano inconversariati, a commiserarsi, a piangersi addosso ogni sventura,
a liquefarsi di tristezza e malinconia, in attesa che la pesante màzzara
, che
spingeva in avanti la lancetta del tempo, facesse suonare il liberatorio
battaglio di mezzogiorno.
Poco mancava che si cantassero da soli un bel
miserere, e se a qualcuno fosse venuto in mente di passare col piattino, questo
non di spiccioli si sarebbe riempito immediatamente ma di lacrime amare, di
sangue, di bile.
E sempre si addannavano, e pure addannandosi, speravano
sempre, in attesa di una qualche nenticchiella
di
novità, e si consumavano la vista guardando quel fumo sigillato in quella
specie di cassaforte protetta dallo spesso vetro.
Parlavano e riparlavano di
cose di nullo conto, e così, poveri poeti che si suonavano la chitarra a morto
e tra nota e nota alliffavano con gli sguardi quella specie di cassaforte,
impavidi minchionelli, non s'addobbavano né panza con fumo, né sottopanza con
donna di niuno genere.
Non erano come certe fiere di mare che muoiono per
smisurato scialibi di pancia, e che restano assincopate aspettando il rutto che
non viene, per vie delle sarde, triglie e sgombri che si sono accantarate
dentro, poiché mangiano non tanto per necessità quanto per vizio; no, per loro
era valido l'opposto, loro rischiavano di morire assincopati per mancanza di
vizio, di fumo fumoso, cioè. E non era neppure un enimma la loro faccia
smorfiosa di sfinge.
Si addannavano, e pure addannandosi, speravano sempre, e
si consumavano la vista sopra quelle scatolette colorate e variopinte,
dilatando le pupille come un gatto abbagliato da una luce troppo forte.
Era come se al centro della piazza
si alzasse un pennone con una bandiera gialla, di quelle che alzano le navi che
hanno avuto qualche caso di terribile morbo a bordo, ed un drappo nero col
teschio e le tibie incrociate sopra, bianco su nero. Quella bandiera di
funeraglia segnalava che a bordo gli uomini, marinai e passeggeri, erano ormai
parte morti e parte definitivamente speranzati, e che la nave messa in
quarantena batteva bandiera di morte, portava un carico di scheletri. E loro
sembravano quegli uomini di bordo, i marinai, i passeggeri senza alcuna
speranza.
Casualmente il professore aveva
detto qualcosa che forse dava una risposta a questo stato di cose e forse non
la dava, e qualcuno s'era posto il perché. Perché, aveva risposto, perché c'è
sempre un perché in ogni cosa. Non ci sono misteri nella vita, sembrano
misteri. Basta fare un piccolo sforzo e domandarsi: perché? E il cosiddetto
mistero subito si risente, non è più tanto fitto e impenetrabile, la visiera
gli comincia a tremolare sulla faccia, al signor mistero. Basta fare un piccolo
sforzo e domandarsi: perché? Solo che lì non c'era mistero e non bastava
domandarsi: perché? Era tutto chiaro e lampante come la luce del sole che
abbagliava sin dal mattino.
Eppure sembrava tutto indecifrabile, arcano sopra
arcano, il tuono spaventoso, senza sprazzo né scintillio di luci, che nel cielo
della notte, rimbombante e scuroscuro, fa il botto finale, l'ultima bomba della
cassinfernale,
che chiude in bellezza e mistero la luminaria dei giochi d'artificio. Erano
tutti giovani, giovanissimi, evidentemente; ma la loro non era giovinezza, non
era vecchiezza, ma sembrava una vecchia giovinezza, una giovane vecchiezza.
Era come se il sonno avesse pigliato
loro solo metà della mente, e metà mente invece non gli riuscisse
d'impossessarsene; ed era come se con quella metà mente sognassero e con questa
vivessero, sicché, pure facendo tutte e due le cose, non ne facevano veramente
nessuna delle due, né tutto sognavano né tutto vivevano, ma facevano una cosa
sola di tutte e due, un di più e un di meno: sognavano, come si dice, a occhi
aperti.
Diceva il professore: "Parabola
significa tarantola ballerina", in altre parole vita e perché, quella
maniata
di
ragazzotti doveva pigliarli per parabola col significato, con la morale, e col
significato morale significarsi la tarantola ballerina, ovverossia l'argomento
che avevano per le mani, mettendoci sotto la parabola, a spiega e commentario.
L'antico detto palermitano stava a significare che la tarantola è costretta a
girare vorticosamente in tondo, senza costrutto, allo stesso modo di chi sta
cercando una verità e gli capita di dover tornare al punto di partenza dove
tutto è avvolto nel dubbio e nel mistero. Loro erano la tarantola ballerina di
quella parabola, senza né capo né coda.
Da qualche
giorno in un angolo del bar era stata sistemata una di quelle macchinette dalle
quali, inserendo una moneta e manovrando una specie di piccola gru, si poteva
estrarre un pacchetto di sigarette americane: solo s'eri fortunato di culo.
Un
tizio, che tra il rincoglionito e lo sdillaniato
,
s'accaniva da qualche tempo a consumare sonanti monete, di fortuna
evidentemente n'aveva avuta assai poca se, dopo l'ennesimo tentativo bilioso
andato a vuoto, aveva mollato un pugno di rabbia rabbiosa alla copertura di
spesso vetro della macchina, rigandola leggermente in un lato, una fessurina di
poco conto, impercettibile ai più, non si vedeva nemmeno, tant'era sottile da
sembrare un graffio, anche se in realtà profonda ad un occhio ben attento e
indagatore. I mugugni della padrona del bar, più per il fragoroso rumore di
botta che per il danno causato, l'avevano costretto a desistere da ulteriori
tentativi ed a tornarsene a casa ammammaluccato.
I quattro amici, biliatissimi,
si guardavano in faccia con rassegnazione, intanto che i loro occhi si posavano
su quei pacchetti di sigarette, ammirando con voluttà ora il loro splendeggiare
acciaiato, ora il luccichio da sole al tramonto, intanto che giacevano lì
accatastati uno sull'altro in bella mostra ed aspettavano soltanto una mano
fortunata per essere prese e fumate. Il fuoco dei loro occhi convergeva su
quella macchina, immobile ed insensibile al loro penìo, come un santo di marmo
che non suda; era un continuo domandare e rispondere, breve e muto, alle volte
di solo ciglio alzato o solo occhio impupillato, altre di solo labbro smorfiato
o anche di sole mani spalmate per aria, occhìando ed apostrofando in un muto
ribelloniamento schiumoso.
La qual cosa non era della domenica, ma forzatamente
di tutti i santi giorni, non una volta sola, ma di continuo di continuo, volta
su volta; un continuo penìo, ci fosse abbaglio di luna o arraggio di sole, o un
nero miscuglio di cielo avesse aperto le sue cateratte. Era come se i loro
occhi fossero sdoppiati, un occhio reale, col quale vedevano tutta la loro
miseria, ed un occhio sognante, volto verso quel miraggio di sigarette,
irraggiungibile e indecifrabile, un sogno incuneato in qualche angolo della
loro mente.
Dalle loro labbra usciva un rantolo che s'udiva appena, come
giocassero piuttosto a fare bolle d'aria col fiato.
Erano conzati
per
le feste, detto in parole povere.
