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lunedì 31 agosto 2015

2/2 - QUANDO LA SPAZZATURA ERA UNA RISORSA E NON UN PROBLEMA. Anche a Racalmuto



Disegno dei primi del Novecento. Non firmato.

I cànteri siciliani di cui parla Bonaviri ne L’incominciamento non hanno nulla a che fare, oltre l’assonanza, con i medievali “cantàri di gesta” spagnuoli o franzesi: nessun Cid o forsennato Orlando.

“I cànteri, usati per i bisogni corporali, per lo più venivano da Caltagirone, dove esiste una fiorente industria di ceramica. Infatti, per i più poveri si facevano cànteri d’argilla granellata d’una grigia terra detta dei monaci; per i ricchi, erano smaltati, con, a volte, pitture esterne, lineari, o in rilievo, in simil-oro, frequentissimamente dipinte di cavalieri e gran dame, o di onde spinte dal vento nel mare dove si sommergeva la luna.


“Lo smaltimento delle materie fecali era uguale per tutti: o si buttavano fuori paese lungo declivi in cui in aprile crescevano ortiche, o piccoli meli selvatici in bianca fioritura; oppure, quando passava col carretto sopra una enorme botte, il canteràro (mia madre ricorda massaro Paolo, sempre intabarrato in un fazzoletto color ciliegia: ‘O donne, gridava, passa il canteràro!’), le femmine si premuravano a fargli svuotare quei recipienti. 
Massaro Paolo ne faceva commercio con paesi vicini, o lontani, come Vittoria, dove si concimavano gli orti”.


Raccolta in diverse parti e in diversi modi, la mondizia, anche a Racalmuto, andava a finire nelle campagne, per ritornare in paese riciclata sotto forma di frutti della terra. Nelle campagne nei giardini negli orti, tutta lì andava a finire. 

L’ultimo raccoglitore di cui resta vago ricordo, fumiraro o canteràro che fosse, è mastru Graziu col suo sgangherato carretto e uno spelacchiato mulo che pareva un asino. 

Storicamente, una parte cospicua della munnìzza era destinata a concimare gli orti i cui ortaggi venivano venduti per pagare la gabella ai Withaker.

Da Il giardino della discordia. Racalmuto nella Sicilia dei Withaker, Coppola Editore, Trapani 2006. Presentazione di Rosario Lentini. Copertina di Nicolò D'Alessandro.

domenica 30 agosto 2015

1/2 - QUANDO LA SPAZZATURA ERA UNA RISORSA E NON UN PROBLEMA. Anche a Racalmuto


  
Chi, nel 1903, si aggiudicò per 1790 lire annue l’appalto del trasporto della spazzatura, aveva l’obbligo di farlo quotidianamente, compresi i giorni festivi.
Dalla ditta appaltatrice la spazzatura veniva raccolta nelle vie e piazze di Racalmuto e rivenduta come concime, per aumentare i profitti.

“Nella parola spazzatura - recitava l’art. 8 del capitolato - si comprende ogni sorta di mondizie, fimo, fanghiglia, polvere, stracci, pietre sparse ed altro”.


Il fimo ovvero il letame, miracoloso per il terreno, veniva raccolto dalle strade dopo essere stato disseminato da carovane di muli, cortei di capre e pecore, mute di cani senza padrone, stuoli di galline fuori le gabbie. Poi c’era quello accumulato nei punti di raccolta abusivi detti, con frase apparentemente francesizzante - e perché no catalana? -, darriè li casi, dietro le case, dove puntualmente campeggiava la scritta “vietato lordare” e dove puntualmente si formavano arcipelaghi di rifiuti d’ogni sorta.
Carogne semisepolte affioravano tumefatte. Il puzzore! In reconditi nascondimenti si sentivano guaiti e teneri miagolii di cuccioli e gattini abbandonati. I proprietari delle stalle vi andavano a svuotare cufìna e cuffùna di letame.

Gli immondezzai “dietro le case” erano assaltati di giorno da nugoli di mosche verdazzurre e al calar della sera diventavano frequentatissimi, fungevano da discarica e da gabinetti pubblici, quelli privati non esistevano affatto; negli angoli oscuri, immerse in nubi dense di indescrivibili odori, sagome accosciate emettevano brevi grugniti mentre intente ai bisogni corporali si davano la schiena per preservare spazi formali di pudore. Anche loro producevano concime. 
E letteratura.

Mattone in cemento colorato, cm. 20 x 20, 1940 ca.
Fabbrica G. & G. Martorelli, Racalmuto (Agrigento)

Il divino Omero, nel diciassettesimo libro dell’Odissea, ci fa sapere, cantando, che il letame era una ricchezza, veniva ammonticchiato con orgoglio presso le porte delle regge, da lì trasferito nei campi, e che Argo, il fedele cane di Ulisse, secondo la traduzione del Pindemonte, “giacea nel molto fimo di muli e buoi”.
In tempi più recenti, “tanti ebbero, bambini, un luogo di rapimenti e spaventi - soffitta o bosco - da visitare”, ha scritto Gesualdo Bufalino in Museo d’ombre. “A me orecchie rosse e felicità vennero da una meraviglia più ricca, l’immondezzaio comunale”.

Pagine d’album sul punto di stingere ci hanno lasciato Bufalino e Bonaviri sui fumirari di Comiso e i canterari di Mineo. Le loro immagini ci fanno capire che, sotto il riguardo dell’immondizia, veramente “ogni mondo è paese”. O meglio, lo era: sono mutati per fortuna i parametri dell’igiene pubblica e privata.

“Come accompagna lo sciacallo le carovane e il delfino le navi - ricor- da Bufalino - ‘u fumiraru’ (il venditore di letame) pedinava i quadrupedi lungo gli itinerari consueti del loro giornaliero cammino, per raccogliere le ciambelle che a intervalli regolari quelli sgravavano sul terreno a guisa di fumanti pietre miliari. Felice chi poteva a sera, rientrando a casa sfibrato dal sole, togliersi di dosso ed esibire agli occhi sgranati della famiglia un cancièddu (corbello) traboccante di superbo raccolto!”.

Da Il giardino della discordia. Racalmuto nella Sicilia dei Withaker, Coppola Editore, Trapani 2006. Presentazione di Rosario Lentini. Copertina di Nicolò D'Alessandro

mercoledì 7 gennaio 2015

NON SOLO BRONTE: QUEL PISTACCHIETO DI VILLAFRANCA






Palermo, 10 Agosto 1899

            Sig: Avv° Aurelio  Alajmo
                                              Racalmuto


            Ci pervennero debitamente le pregiate vs. lettere del 26 Aprile e 11 Luglio u.s., alle quali daremo evasione con altra nostra.
            Sotto fascio Raccomandato con lo stesso corriero (sic) riceverete la copia autentica debitamente Legalizzata dell’atto di compra vendita fatto in questa, di un fondo coltivato a Pistacchio, nel territorio di Villafranca, Provincia di Girgenti, allo scopo di voi curarne la voltura catastale a Girgenti.
            All’oggetto vi uniamo la bolletta della tassa di voltura pagata in questa, e la relativa domanda.
            Preghiamovi pertanto volervi interessare di farci questa voltura e rimetterci l’atto in parola con la nota dell’eseguita voltura.
            Nel contempo preghiamovi farci la nota delle spese che sarete per incontrare, per rivalutarvi, mentre ringraziandovi del disturbo, distintamente vi salutiamo.

                                                                                   p. p. INGHAM & WHITAKER (1)
                                                                                                         ***

Nota
1.         Il nome della Ditta è riprodotto tramite timbro, segue una firma della stessa grafia del testo della lettera e diverso da quella dei fratelli Whitaker.

cit. in 

giovedì 26 dicembre 2013

TEGOLE ANTICHE E DISGRAZIE MODERNE



Tegole antiche o canàla

Aggiungevano sale all'argilla: di questo speciale impasto erano le tegole con cui si ricoprivano i tetti delle case. E il sale, si sa, è sapienza, intelligenza. 


Con quest'arte antica Angelo Martorelli e suo fratello Pietro detto "il bersagliere" hanno steso un virtuoso manto protettivo sulle teste dei racalmutesi.


Con le tegole moderne non piove acqua nelle case ma, intelligenza  parte, occorrerebbe un nuovo impasto che non lasciasse trapelare alcun tipo di dannose precipitazioni né in senso proprio né in senso figurato. 


Tegole antiche e sopraggiunte tegole moderne


Stoviglie, risalenti al periodo arabo del IX e X secolo, sono state rinvenute presso la reggia kalbita di Maredolce a Palermo durante i lavori di restauro. È risaputo che anticamente esistevano stoviglie in terracotta da intendere ieri come oggi: il complesso dei pezzi di vasellame per uso di tavola e di cucina. Fors’anche a Racalmuto, di origini arabe, gli antichi stovigliai ne fabbricavano. Ma non vi sono reperti a testimoniarlo.

Anche il nome primevo di stovigliai o stovigliaj ha subito una conseguente trasformazione: nelle carte del 1910 non troviamo più “stovigliai” ma “tegolieri”.

Canalàra vengono detti a tutt’oggi i fabbricanti di canàla ovvero di tegole, i coppi con cui una volta si ricoprivano i tetti delle case, prima di essere soppiantati dalle nordiche tegole rosse. 
C’erano anche modi di dire legati ai canàla. I bambini dicevano Santa Nicola, Santa Nicola, vi dugnu la vecchia e mi dati la nova e contemporaneamente lanciavano sulle tegole stagionate delle case basse i denti da latte appena disalveolati. San Nicola avrebbe provveduto a far ricrescere quelli nuovi.

“Avere un canale” significava e significa poter contare su qualcuno cui raccomandarsi per ottenere un favore in analogia alle tegole che incastrate tra loro in linea scoscesa fanno scivolare l’acqua piovana da una tegola all’altra, fino a farla sfociare nella cannalàta, una volta anch’essa in terracotta.



Questi e altri modi di dire sono divenuti sempre più rari come rari sono ormai i tradizionali fabbricanti di tegole. A Racalmuto due anziani fratelli, con segreta formula, continuano a impastare sapientemente tegole semiconiche, con argilla e sale, ma anche mattoni quadrati per anticheggianti pavimentazioni rustiche e mattoncini rettangolari, leggermente incurvati, per costruire la volta dei forni domestici.

Nella bella stagione, dopo averli asciugati al sole, cinque, seimila tegole, mattoni e mattoncini impilati un una cavità cilindrica scavata a terra, vengono messi a cuocere con il forno infuocato ad oltre 800 gradi, per tre giorni e tre notti. Se tira vento verso sud-ovest, il paese viene invaso dal fumo e dall’odore dell’argilla cotta.

Al termine del terzo giorno è una processione verso lo stabilimento dei canalàra detto Stazzùni: si vanno a riesumare antichi sapori di cibi messi a cuocere sulla catasta di tegole ancora calde. Oggi, l’uso delle tegole in terracotta è folklore, vezzo borghese, una volta rappresentava una necessità oltreché una fiorente attività artigianale.


Tutti i tetti, tutte le pavimentazioni e tutti i forni delle case racalmutesi ricche e povere venivano riforniti dai canalàra che erano, si può immaginare, molti e tutti bisognosi della materia prima: l’argilla. Di ottima qualità e abbondante si trovava nei terreni in contrada Fontana, nei pressi del Giardino dei Whitaker.


da Il giardino della discordia. Racalmuto nella Sicilia dei Withaker, Coppola editore, Trapani 2006. Prefazione di Rosario Lentini

http://www.coppolaeditore.com/category/58-saggistica.aspx

http://www.criticaletteraria.org/2012/05/il-salotto-una-passeggiata-palermo-con.html




lunedì 10 settembre 2012

RACALMUTO COME MOZIA?!


La recente notizia di alcuni ritrovamenti archeologici, durante i lavori per l’autostrada Agrigento-Caltanissetta, mi ha fatto ricordare di essermi occupato di simili notizie in un vecchio articolo pubblicato nel 2005 sulla rivista fiorentina “Lumìe di Sicilia”. Riproporlo sul blog ora non mi pare inopportuno né “fuori tema”, rafforza semmai ipotesi antiche e rammarichi moderni.

 
Un giorno un contadino andò a trovare il signor Joseph al baglio di Marsala con alcuni oggetti trovati nell’isola di San Pantaleo mentre dissodava il terreno per impiantarvi un vigneto. Il signor Joseph riconobbe lo stile punico e li comprò.
Del Commendatore Joseph Whitaker, detto Pip, inizia così l’avventura archeologica a cui si dedicherà anima e corpo, specialmente dopo la nascita della seconda figlia quando ritornerà pressoché scapolo dal momento in cui la suocera aveva deciso che la propria figlia, dopo la seconda gravidanza, non poteva continuare ad assolvere i doveri di moglie.

Quello che rappresenterà l’isola di San Pantaleo, ridivenuta Mozia dopo gli studi e gli scavi del Commendatore archeologo, è noto in tutto il mondo. Oggi Mozia è incessante meta di visitatori. L’impero economico dei Whitaker è tramontato ma Mozia è più viva che mai. Sappiamo come i letterati e i pittori la dipingono: poco distante dalla terraferma, collegata da un carro che procede in mezzo al mare. “Un carro? Fino a quest’isola?” chiede un personaggio consoliano, a cui viene risposto: “Nessuna meraviglia. Là a levante corre sott’acqua, ch’è alta qualche spanna, una strada lastricata di basole bianche che porta dritta giusto fino a Birgi”.
Rivivono oggi la strada lastricata sotto il mare, le mura con le torri, i leoni di pietra, la necropoli. Rivive la città filocartaginese com’era prima di essere espugnata e bruciata dai greci, sepolta, dimenticata.

Chissà quale sarebbe stato il destino archeologico e turistico di Racalmuto se i contadini racalmutesi, invece di ridurre in frantumi gli antichi vasi di creta rinvenuti e altre cianfrusaglie, li avessero offerti al Commendatore Whitaker. Di oggetti antichi, monete, sepolcreti, in tutto il territorio racalmutese ne sono stati sempre trovati,inabbondanza,cometestimonia Nicolò Tenebra Martorana fino al 1897:
“In contrada Cometi, lungi tre chilometri da Racalmuto, in occasione di scavi, si rinvennero sepolcreti d’argilla rossa, resti d’ossa, lumiere antiche, cocci di vasi [...].
“In contrada Culmitella (ex feudo Culmitella) furono rinvenuti due grandi vasi di creta rossa a mo’ di giarre. [...]
“In contrada Ferraro, furono trovati piccoli vasi di creta, con disegno molto ben fatto e delicato, vernice nera e leggierissimi. Erano dei lacrimatoi. Graziosissimi a vedersi, furono ridotti in frantumi dagli ignoranti contadini, che dentro quei piccolissimi vasi sognavano un tesoro!
“In contrada Cometi furono rinvenuti vasi antichi. [...]
“Infine a Casalvecchio, a poco meno di un chilometro dall’odierno Comune, in occasione di scavi eseguiti per istabilire una strada carreggiabile, si rinvennero sepolcreti, ruderi d’antichi edifizi ed altri oggetti.”
Tutto questo nell’Ottocento.

Ma anche per tutto il Novecento si sono inseguite voci di favolosi ritrovamenti o di allarmati interramenti per paura che le autorità ponessero vincoli ai terreni o li acquisissero forzosamente.
Oliveti e vigneti, forse, prosperano su ignorate necropoli piene di corredi funerari? Da accertare. Sta di fatto che qualche reperto si trova esposto al museo archeologico della Valle dei Templi. Esposto per modo di dire, da qualche tempo inchiavardato e sepolto negli scantinati.
Alla richiesta di notizie sul materiale archeologico racalmutese conservato o esposto al Museo, la risposta dal personale addetto non poteva essere che pirandelliana:essoconsisterebbeinquindici pezzi non esposti, poiché di nessun valore espositivo, e in una imprecisata raccolta di monete, non esposte ugualmente perché molto preziose. C’è da consolarsi: il monetario, “in fase di riordinamento”, sarà esposto quanto prima. “Forse, l’anno prossimo,” è stato il pronostico del personale addetto, allungando i piedi sotto la scrivania e rinculando sulla spalliera della poltrona direzionale.

Se il Commendatore Whitaker fosse venuto in possesso o a conoscenza di questi e di altri reperti, oggi a Racalmuto ci sarebbe almeno un museo, come a Mozia, e non staremmo a sentire di sparsi e incontrollati rinvenimenti, di mura ciclopiche prima portate alla luce in contrada Grutticeddi, vigilate per un paio di mesi da un pubblico custode inviato dalla Soprintendenza di Agrigento e, infine, sotterrati un’altra volta.
Un assessore, in carica negli Anni Ottanta, ricorda di avere visto solo una volta alcune casse con 114 straordinari reperti (punte di frecce, suppellettili, monili...) di età preistorica. “Centoquattordici!” ricorda benissimo, e si rammarica el loro inventario mai pervenuto.
Al Serrone, al Babbalùci, alla Menta e in tante altre contrade chissadove, si dice che i contadini smuovessero la terra furtivi: di notte si sentivano i cadenzati rintocchi dei picconi alternarsi al singulto dei gufi.

Un luminoso giorno del luglio 2004, durante i lavori di sbancamento per ricavare verdi parchi e rotabili parcheggi, nei quartieri Bastione, Stazione e nel terreno di Padre Arrigo, vengono scoperte strane cavità somiglianti a grotte. “Tombe sicane” dice qualcuno; “bizantine” ipotizza un altro, bizantine come le monete non esposte al museo “San Nicola”, e si azzarda ad enumerarle, “forse una, due, tre.” Il giovane assessore che mi accompagna al sopralluogo nicchia e annuisce, annuisce e nicchia. Gesticola. Cincischia. L’augurio è che vengano appurate le “voci” e ne conseguano “scelte politiche conseguenti”. La ditta appaltatrice nel frattempo, di quelle grotte, ne  avrebbe tompagnate alcune. “Con tutto il cordolo funerario,” si mormora in giro. Si teme sia vero.
Speriamo di no,” dice l’assessore.
“Speriamo di sì,” dico io; chiudo gli occhi e penso: “Se il Commendatore Whitaker fosse venuto a Racalmuto, altra sorte sarebbe toccata al ‘cordolo’ funerario, alle tombe, alle mura interrate, alle monete inesposte”.

L’ipotesi non è peregrina. I Whitaker avevano proprietà a Racalmuto.
Se, nel 1898, come altrove ho documentato, invece di mandare due “incaricati speciali” a ispezionare la suddetta proprietà, fosse andato Pip, il cultore a tempo pieno delle cose antiche, l’archeologo appassionato, lo scopritore di Mozia, forse...


Piero Carbone





Sicilia svelata - Mozia: i rostri della battaglia delle Egadi (ITA/ENG/FR)


http://www.youtube.com/watch?v=pF23O72TUOE&feature=youtu.be


[PDF] 

lumie di sicilia - Associazione Culturale Sicilia Firenze


www.sicilia-firenze.it/upload/files/lumie_n53.pdf


Foto da Internet