mercoledì 6 gennaio 2016

NON È COLPA DELL'ABATE MELI. La verità viene a galla anche per la Fondazione Sciascia: la terna era di facciata





Al convegno su Giovanni Meli, tenutosi a Palermo, dal 4 al 7 dicembre di quest’anno, ho incontrato Nino De Vita e Antonio Di Grado, entrambi facenti parte della Fondazione Sciascia di Racalmuto per volontà dello stesso Sciascia; con il De Vita, anche lui tra i relatori, ad un certo punto il discorso cadde naturalmente sulla Fondazione: quando, per sapere direttamente la sua opinione, ho mostrato la mia perplessità che egli, assieme a Giuseppe Traina e Felice Cavallaro, si fosse trovato nella terna proposta dal Consiglio di amministrazione della Fondazione e che il Consiglio comunale doveva votare scegliendo uno dei tre come da Statuto, visibilmente contrariato, De Vita disse semplicemente che non ne sapeva nulla: era stato proposto nella terna a sua insaputa.




Per le ragioni esposte precedentemente sul web (http://archivioepensamenti.blogspot.it/2015/02/fondazione-sciascia-cavallaro-de-vita.html), avevo ritenuto la terna inopportuna se non proprio impraticabile, ma la dichiarazione di De Vita non solo avvalorava i dubbi sollevati a suo tempo ma il aggravava: come si può infatti proporre il nome di qualcuno ad essere votato per una carica se questi non dà la propria disponibilità? Giuseppe Traina e Cavallaro erano stati avvisati? Erano disponibili, una volta eletti, se eletti?

Avevo temuto che quella terna fosse, per tante ragioni, una "terna di facciata". Che bisogno c'era? Sarebbe stato offensivo per tutti.

Preciso, a scanso di strumentali equivoci: le domande e le perplessità pubblicamente sollevate non vertevano sui singoli nominativi ma sulla opportunità e correttezza della formazione e presentazione della terna stessa formata da, in ordine alfabetico, Felice Cavallaro, Nino De Vita e Giuseppe Traina.

Avevo tralasciato di soffermarmi sui tempi risicati (appena pochi giorni) invece di quelli più lunghi previsti dallo Statuto, nel presentare la terna da sottoporre al voto del consiglio comunale, ma già i rilievi sollevati avrebbero richiesto una risposta, un chiarimento, un riscontro statutario. Invece, niente.


Piuttosto, poco cavallerescamente, alcuni giornalisti e qualche consigliere comunale, a giochi ancora aperti, hanno enfatizzato, con tanto di articoli, la scelta di uno dei tre nella fattispecie del Cavallaro come la più opportuna e proficua. Le dichiarazioni di voto, ammesso che tali avrebbero dovuto essere, vanno fatte in aula non sui giornali.


Ma in generale, ai dubbi e rilievi da me sollevati, è seguito tombale silenzio da parte dell’esiguo nonché superstite consiglio di amministrazione della Fondazione, del sindaco e dell’assessore alla cultura in quanto, rispettivamente, Presidente di diritto e componente pro tempore del consiglio di amministrazione della Fondazione, silenzio da parte del Presidente del consiglio comunale e dei consiglieri della maggioranza e della minoranza.

Per tale silenzio, non volevo incolpare di insensibilità altri, tuttavia ho pensato che la mia voce fosse ritenuta troppo debole per essere ascoltata, ma, per non deprimermi del tutto, ho notato che  non è stata ascoltata neanche la voce del vicepresidente del consiglio: anch’egli ha tentato un iniziale dibattito, ma senza seguito. Ho pensato allora che non si trattasse necessariamente della voce debole di chi parlava ma di udito difettoso in chi ascoltava o avrebbe dovuto ascoltare.

Sul temuto abbassamento di voce, ho scongiurato definitivamente da parte mia il ricorso all’otorinolaringoiatra da quando un importante rappresentante dei consiglieri di minoranza (consiglieri che hanno votato unanimemente insieme alla maggioranza senza battere ciglio) mi ha confidato, abbracciandomi, che, alla luce di quello che è, o non è, avvenuto dopo, in una riunione con i suoi aveva detto chiaro e tondo “ragione aveva il professore Carbone”.



Se non fosse che di mezzo ci stanno tanti nomi e tante cose importanti, pubbliche e non private, avrei potuto uscirmene, serenamente e con distacco, recitando il  detto e ora mi la mangiu squadata!

Ma non l’ho detto, e non lo penso, perché non è giusto che a mangiarsela squadata, a berla in malo modo, siano tutti quelli che, in considerazione del messaggio sciasciano,  hanno creduto nel Progetto Fondazione; non è giusto che a “mangiarsela squadata” sia la comunità che dalla Fondazione avrebbe dovuto essere prestigiosamente rappresentata o la società civile che vi ha investito energie e denari.




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ph ©piero carbone

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