sabato 27 giugno 2015

COMPLICI PER IL FUMO. Seconda parte. Racconto di Federico Messana

seguito di




...ed un drappo nero col teschio e le tibie incrociate sopra, bianco su nero.
Quella bandiera di funeraglia segnalava che a bordo... 


FEDERICO MESSANA

       I ragazzi di Monte Ottavio  

Seconda parte

 "Federico!", commentariò ad un tratto Salvatore, somigliantissimo ad un pupitto, sempre alliffato, stirato e lucidato, con faccitta e manette come si spalmasse ogni ora crema e vasellina, i capelli sempre imbrillantinati con la scriminatura di lato, ma mortizzo e sfantasiato, con aspetto di funeraglia, con le occhiaie di chi ha vegliato notti e notti per un malato e poi ha pianto il suo lutto, guardando la macchina, con la voglia che gli usciva dal risvolto dei pantaloni e che si leccava la lingua per farsi la bocca.

"Perché non inventi qualcosa? Non è giusto che quelle benedette sigarette susprande se ne stiano lì immobili ad essiccare e noi qui a contemplarle, come tanti stupidi straviati ed allazzariati.[41] Possibile che dobbiamo fumare sempre trinciato di spina santa e rantoliare di desiderio?", proseguì, come se si sentisse pizzicare il culo a mandolino.

La faccia rosata di sole e gli occhi sfavillanti, sembrava trovasse strano di non vedere negli occhi dei suoi amici lo stesso sfavillio che c'era nei suoi e che gli veniva dal piacere di stare al mondo. Parlava a Federico, ma girando gli occhi in tondo, cercava conferma in quelli degli altri amici, li stava a guardare ora l'uno ora l'altro, come s'aspettasse una risposta dall'uno o dall'altro, perché li diceva a parole muti, cogli occhi però li faceva parlanti. Rivolse quelle parole con sguardo accuttufato[42] ma compiaciuto ed eloquente, uno sguardo che sembrava rivolto non tanto alla persona, quanto a quello che la persona gli rappresentava in quel momento, la tecnica fantasiosa o la fantasia tecnica che gli avrebbe risolto il problema più immediato.
Intanto che supplicava, faceva segno con l'indice ed il pollice ch'era faglio[43] e si rovesciava le tasche sotto gli occhi di tutti, squagliandosi di desiderio per quelle sigarette, gettando lacrime di parole dalla bocca, rantoliando appunto.


Come e più di quando s'innamorava di qualche fanciulla, dal momento ch’era un gran gettatribolo, sempre con qualche occupazione di cuore, qualche peso che gli gravava sulla bocca dell’anima. Ed allora, incotturiato di pensieri, la passione, come canazza affamata, gliela potevi leggere in una faccia, parlante, accuttufata e triste come la Madonna dei sette dolori per un verso, e quella beata e sorridente dell'Assunta in cielo per un altro.

Allora, stringendo le pupille, le aguzzava sugli scòlleri di femmina, che riteneva lettifera per natura ed all’asciutto di uomo; si sentiva bene incavallato e temprato alla meglio, si sentiva tutto attizzato di rinfocolio di vita, e nell’infervoramento che ne seguiva, ogni volta pigliava l’inchiavatura[44] del cantastorie, che la fa sempre tragica e ci mette accenti pomposi, come se gli venissero dal cuore, e schiumava tutto di valentia mascolina. Si sentiva come sprovato[45] nel suo mascolino di natura, pizzicato là, al nerboschino, nel peso davanti, e che sonasse col flauto di pelle una musica che a quella piaceva assaissimo, pronto a darle una bella sconquassata, incrignerandola[46] di dritto e di rovescio.

Sapeva bene però che quella era pervasa da un incantesimo che lui doveva rompere, con porte e passaggi da aprirsi a lusinghe e sciabolate, ignorando che a femmina, se le va a genio un uomo, lo afferra e se lo piglia, e sennò non esistono flauti di pelle, non esistono giovanotti, per quanto temprati alla meglio, capaci di spezzare quell'incantesimo e giungere ad una 'ncarcata[47] per il dilettevole di entrambi.

Allora, annorbato per femmina, restava pervaso da tutto quel fottisterio di pensieri a rimuginare, a pensare, a sfessarsi, come infestato da terribile malattia da letto. Sognava di stare in un'alcova tutta foderata di trine e pizzi, con ricami e svolazzi, nappe e nappine, tendine, veli e velari, per non farsi sporcare dalle cacatine di mosche.

Sognava di fare coppia con lei, tranquillo e solingo, come fosse in acqua di paradiso, tra azzurri guanciali scavandosi la tana in mezzo al letto; sognava di starle sopra, col suo groppone teso, e abbrancandola stretta alla vita sottile, s'incafollasse[48] dentro a lei, sussultando in fretta, ma leggero, leggero che nemmeno pareva, cercandole dietro il collo, come per pigliarle il tuppo di capelli.

Allora si raggrinzava tutto, smorfiando al cielo, come pigliato da improvvisi brividi di freddo, con espressione sconvolta e felice, quasi privo di respiro, come se agonisse, con sguardo ironicamente esterrefatto e sembrava piatisse con l’occhiolino che ti guardava a piantolino. Fissava il vuoto con l'occhio velato e si lamentava, quasi rantolava, un dolidoli che straziava, una specie di spasmo come avesse un'unghia incarnata o capocchie di spillo infocate nelle carni, continuo, cupo-cupo.


A ben guardarlo sembrava avesse spasmo di cuore, che le lagrime gli zampillassero grosse come ceci nei fondi di bottiglia e che si martoriasse di ngà, ngà come una mocciosa per mancanza di minna o una gallina pigliata da gallo.

Il patema più grande l'aveva per la nuova zita, nel paese vicino, che a sentire lui doveva essere come una specie di calamita per attirarsi addosso tutto quello che di benigno o di maligno poteva capitare, corteggiamenti e proposte di giovanotti, come se fossero sbarcati gli alleati e la sola mira fosse proprio lei, la zita.
Poiché quando l'aveva conosciuta, gli dava quasi ad intendere che s'affrontava[49] di lui, poi, la sfrontata, impupandosi di grazia femminina, se n'usciva a fargli l'occhiolino, la cascamorta, frascheggiandogli[50], vaviandosi[51] e cernendosi tutta, con tutto il suo flessuoso più flessuoso di culo a mandolino. Si comportava come se con un cuore la sapesse morta e con l'altro viva, vivace, vivissima.

Pareva avesse l’occhio che si invitriava, incupito di desiderio, e che mandasse flebile lamento, una specie di musica in sordina che accompagnava il sospiro di sollievo. Dopo aver voleggiato, occhìando a destra e a manca, come avesse assaggiato femmina del suo harem, girando la pupilletta lentamente intorno, gli occhi velati, da insonnambulato, gli si accendevano di brillii come se dentro gli ritornassero gli spiriti che sembrava avere persi, alzando le palpebre rattrappite sembrava tornare a vita, e contempo sospirava spremendosi.

Poi, quasi per magia, l’occhio che si era essiccato riprendeva a zampillare, come se il ricordo gli rigurgitasse fuori dall'anima, ancora pervaso dalle meraviglie e dai piaceri di un altro mondo.
Poco ci mancava che bisognasse annacarlo[52], facendogli cullaculla, come un moccioso che non trova requie se non attacca i suoi labbruzzi in qualche minna. Nulla poteva farlo desistere da quell'atteggiamento, povero criato[53], neanche se fosse arrivato a scoppolargliela il suo re in persona. Il tutto per una triina di giorni.

            La domanda accorata, quasi una supplica, illuminò gli occhi di Federico che non aspettava che una simile richiesta. Ebbe una mossettina scattosa dentro, quasi di orgoglio trattenuto, e questa gli trasparì solo nel modo come strinse le labrette e schiacciò i mascellari. Rimase qualche istante pensieroso con aria sopraccigliata, s'incupì di sguardo, girò intorno alla macchina pendoliando con la testa, quasi volesse studiarla per poterla attaccare nel suo punto più debole, allisciò con attenzione la sottile ed impercettibile fessicella del vetro alliccandosi il dito di tanto in tanto, e si addunò[54] che una soluzione adatta c'era, anche se quella macchina dondoliava e ziculiava come tavole di letto che fanno 'nzùghiti 'nzùghiti sotto due pesi allupati[55].

Abbassò gli occhi e li tenne chiusi, come cogitasse. Li riaprì, testiando a destra e a manca come se con la mente seguisse l'operazione che già cogitava di mettere in atto, li richiuse quasi volesse verificare quanto escogitato. 

            "Tra fessura e fessura, filo duro e sottile; adattato con cura, s'apre pure l'ovile! Aspettatemi qui, torno subito, perché la cosa è facillima! Vedrete che il fiele nasconde sempre qualche goccia di miele", sentenziò con aria tragediatora da abracadabra. Risolto l'indovinindovinaglia, quell'enimma ormai ce l'aveva come in fotografia. Quando ci metteva un po' d'impegno potevi stare sicuro che la cosa riusciva perché, studiando bene le causanti, incalcava fitto il coperchio che aveva messo sopra le sue considerazioni, restando sempre orlo orlo al superfluo per l'essenziale. Le sue mani ammastriate[56] avrebbero fatto il resto, sarebbe stato come richiamare mare con sale, od aceto con olio.

            "E' fatta! Sento che oggi è giornata buona, sarà sicuramente uno sciàlibi"[57], disse Salvatore, proclamandolo forte e bandiandolo[58] in faccia a tutti, certo che Federico faceva sul serio e non buffoniava, con un barbaglìo che fece stravedere una scaglia vampirica assetata di desiderio: proprio quella scaglia che ammaliava e tramortiva tante povere creature inesperte, come dire innocenti cacanido[59] fresche di piume, tramortite da quella faccia accuttufata e beata, allo stesso tempo, quando si adagiava in gloria con gli occhi verso l'alto, in aspirazione di cielo.

            Issofatto, dopo una mezzora Federico era di ritorno al bar, con uno strano attrezzo in tasca, un sottile filo di rame adunco da sembrare un attrezzo da dentista medioevale, adatto più a torturare bocche irrimediabilmente malandate che a curarle. Forte della trovatura trovata, rideva, e cogli occhi che gli brillavano andava ripetendo come riesumo della sua invenzione: "Pensate che trovatura trovai!". Felice della trovatura, era come un vecchio soldato che avanza appoggiandosi alla sua lancia per bastone, mentre lui era in procinto di usare il suo filo per lancia.

            Riunì gli amici in un angolo e, come comandante di briscola, spiegò loro che, se non si fossero scandaliati[60] e strambati più di tanto ed avessero seguito i suoi consigli, senza fuirsela a gambe levate, alla stregua di maganzesi, tenendosi i pantaloni in mano, come avessero la miccia al culo, né farsi prendere da furioso tremolizio, fra pochi minuti avrebbe travagliato il pane e loro avrebbero fumato gratis per una simana intera.
Si sentì un poco Cristo che diceva agli apostoli: andate in giro a predicare fra le genti il verbo divino.
Dovevano però giurarsi il sangiovanni e fare comparanza, dovevano sentirsi per un momento come Padre, Figliolo e Spirito Santo.

Si comportò come i cristiani che spruzzavano l'acqua in fronte ai saraceni, sottomessi davanti a loro col ginocchio piegato, e che mentre con una mano li battezzavano, con l'altra tenevano la spada puntata alla loro gola. Dovevano insomma ubbidire ai suoi consigli e basta, come se camminassero su delle uova, attenti a non scrafazzarli[61]; come donna incinta grossa, che deve sgravarsi da un momento all'altro, e segue meticolosamente i consigli del medico. Allora come per magia, senza calibro dodici né cartucce caricate a palla, senza lume di lumi ma con l'abbaglio di sole, avrebbe alienato tutto quel ben di Dio che se ne stava immobile in quella maledetta vetrina, a fare dispetto e titillare la gola.

Con un semplice gesto della mano 'ncatesimata, avrebbe smaterializzato quei pacchetti colorati e li avrebbe materializzati nelle loro tasche!

A tale vista non si dovevano imbabbire né squatrasciarsi di risate per gioia o meraviglia: per cui Totuccio no, lui proprietario del bar doveva starsene alla larga, per non compromettere l'operazione, anche se in cuor suo sicuramente avrebbe approvato e spartito il goloso malloppo. Ma un suo micidiale scàccano, di gargarozzo sgraziato ancorché argentino, avrebbe messo a repenticolo la delicata operazione che richiedeva tatto e concentrazione infinita.

            Fefè fu incaricato di distrarre la barista, il viso come squaglio di zucchero, bianca d'un bianco come stillasse latte, che si rinfrescava con un ventaglio muscarolo, occhiandola nei grossi pendoli, ammaliandola, taliandola e ritaliandola negli occhi, maniandola e tastiandola[62] se necessario, tenendola in un angolo come un cagnolo agguantato per il cozzo, e risalendola con lo sguardo dai piedi alla testa; in poche parole, se fisicamente non la si poteva spostare altrove, con la testa e cogli occhi doveva essere lontana un miglio, come darle uno zìttiti e dormi!

Doveva guardarla a guardia, doveva misurarla cogli occhi e scenderle con lo sguardo fino a dentro i pensieri più nascosti. Non un fichidindiaro doveva essere, ma un venditore di miele, e lui una lapuzza [63]che doveva tessere intorno intorno.
Doveva insomma quagliarla in un sonno profondo.

Peppi, gettando fuoco dalle narici, intesando gli orecchi, come canazzo di mànnira[64], doveva stare a vedetta a fare da intinnere, doveva starsene di guardia alla porta per dare informe con un fischio dell'arrivo di Totuccio uscito per una commissione o di qualche scomodo avventore. Che sai come sono gli avventori dei bar di paese, nulla vedono e nulla sentono, al momento, ma prima o poi hanno da dire la loro. Salvatore, azzizzato[65] con un capiente sacchetto, doveva essere, come spazzino, pronto a recuperare i pacchetti che si dovevano materializzare fuori della macchina, dopo avere trapassato il vetro come inanimati fantasimi.

A suo dire, sarebbe stato come giocare all'ammucciatella, come andare a fare la spesa alla putìa dicendo: "Tanti saluti e grazie", insomma.

 Quando credette di avere fatto un buon fagottello di ammaestramenti, come padre al figlio che parte e non sa ancora il mondo, o come padre che sul morire confida al figlio il principale segreto della vita, la scienza sua, dicendogli a buon bisogno di farne buon uso e a stretto bisogno di farne stretto uso, decise ch'era l'ora di passare all'azione.
            "Avanti, sursincorda, pronti e via!".

Ci vollero pochi ma interminabili minuti: l'attrezzo, fatato e micidiale, per un verso, come una durlindana a tre punte, sacro e prezioso, per un altro, come calice con l'ostia nella sua nicchia, cominciò a volteggiare tra le dita sollecitissime ed assai mastre di Federico come minuscola guisina[66] in acqua, e lui prese a dimenarsi come illusionista sul palco che fa sparire e ricomparire fazzoletti e piccioni.

Le sue mani bianche e grosse, di sopra ombreggiate di una peluria fina lucente, come colorate di sole a vedersi, sbrigavano sicure quel lavoro da gioielliere, senza bisogno d'essere seguite dall'occhio, quasi si animassero fuori della sua persona.

La sua mente, simile all'ago calamitato di una bussola, s'era messa nel verso giusto. Smorfiando cogli occhi e colle labbra dalla meraviglia, i pacchetti presero a volare fuori dal vetro come bianchi fantasimi e finire nel sacchetto, uno, due, cinque, dieci, venti, in un arraffarraffa interminabile, uno scannascanna senza fine.

Furono attimi di assoluto silenzio per gli attori, un tuono di silenzio, un silenzio tale che era come sentirlo, sembrava che uno sbrogliamento di pensieri si muovesse verso la bocca, un movimento di lingue facessero saliva di parole mute.


La femminella barista parlava e parlava a Fefè, cieca della cecità cieca di chi non vuol vedere, e sorda della sordità sorda di chi non vuol sentire, nonostante il trambusto inevitabile e l'aria surreale di quei frenetici momenti. Alienata nei suoi pensieri, c'era e non c'era, guardava ma non vedeva, come allisciata e sospinta da un grecalello delicato e gentile che faceva mulinelli di continuo, quasi trasportata tra le spire degli infiniti granelli di sabbia in un deserto di dune, e lì delicatamente depositata da mani sapienti.

"Accùra, accùra[67]! Presto, presto, allestìtevi![68]", fece ad un tratto Peppi con sguardo trucchigno e bava alla bocca, facendo affacciatella verso la piazza, come pigliato dalla tarantola, con faccia aquilina e tragediatora, smirciando[69] alcune persone in sollecito appropinquo.

La sua 'mpigna[70] vampirica, scura di pietra lavica, brunastra di pelle e di sangue sanguoso, che l'ora fosse maitina o serotina, lo faceva tutt'uno con un satanasso infernale, come quando uno spicchio d'arancia ha il figlio, uno spicchietto incorporato, parte dentro e parte fuori; e, strabilio massimo per tutti, incredibilmente, lui era quello spicchio, come se lo avessero innestato di selvaggio.

Come dire che quando l'Onnipotente lo scagliò in terra dal cielo non s'era comportato con senso di giustizia. Piccolo di statura e come nero di sole, sembrava arrivare da luoghi lontani e scogniti.

Nell'agitazione e confusione, per sbaglio o abbaglio, per fuliggini agli occhi, quel bambino che correva verso il bar, che di un bambino innocente si trattava, da uno che era, alla sua vista si fecero tanti, innumerevoli; a causa del forte abbaglio del giorno, invece di vedere doveva avere stravisto; la sua vista s'era offuscata per sbagliabbaglio ed era divenuto impossibile calcolare chi era in arrivo, come un branco di pesci che, fra salti e tuffi, spume e spruzzi, sa farsi, alla vista, tanta, innumerevole di una che è, e una di tante, innumerevoli che sono.

                                                        * * * *
Ma ormai la macchina, benché intatta nei sigilli, era già svacantata[71], l'attrezzo adunco sparito, il sacchetto gonfio di fumo in piazza sotto un sole che sciabolava l'aria. E gli amici, intorno a Federico, a congratularsi per lo strabilio di fenomeno ch'era stato, come cane festoso col suo padrone. Caprioleggiavano e saltavano di gioia dandosi pacche sulle spalle, gettando iiih a non finire, ma pure qualche scorreggetta che suona sempre a musica, dando ad intendere che quel fumo dava loro alla testa, scoppiava il cuore col sangue in subbuglio, faceva insomma risonare dentro di felicità.

E ubriachi come signe[72], non più spagnati[73] con brividori di pelle ma con libito in viso, le pupille a papuzza e risate sciacquose, a buttare quel fumo per aria, verso il cielo rosso e terso, non più rosso ma nero, pieno di nuvolaglie fumose che, come mosse da scirocco terribilio a levante e tramontana freddosa a ponente, s'arruffavano a mazzomaurello[74] verso l'alto del cielo, per straviarsi lassopra come bianche pecorelle al pascolo.

Il cielo che di norma dava poco dolce e tanto amaro, quel giorno finalmente aveva deciso di concedere tutto dolce e niente amaro.
       
            E Totuccio con noi, non più a lagnarsi per la scianca che gli aveva procurato lo scripintamento di una birfuca[75] al piede destro, dimentico di zoppìa di piede, di vescovo ed agrimensore, a susprare e risusprare, ignaro, le sue coloratissime Palmall, tra sghignazzi e scàccani fuori ordinanza, come avesse sbottonata e spampanata una rosellina innocente senza pagare dazio! E noi con lui a ridere a crepapelle, col riso che ci faceva sciacquìo dentro, una risata dietro l'altra senza dare tempo alla prima di freddarsi per aria, con le pupille a papuzza[76] diluviate da lagrime e fumo odoroso, incafollando alquandalquando timbolate[77] sulla sua bianca fronte liscia come culo di verginella, a scaccaniare[78] con lui, che s'intrubboliava[79] perché gli sbrogliavamo la capigliatura[80], sfantasiati e libitati[81], con l'aria che spiritava odore d'arancio e bergamotto.
            Issofatto!





[41] molto annoiati
[42] triste
[43] privo di soldi
[44] la posa, il modo di fare
[45] messo alla prova
[46] afferrandola
[47] amplesso amoroso
[48] s'infilasse
[49] si vergognava
[50] fare la corte
[51] bagnandosi di bava
[52] dondolarlo
[53] piccolo
[54] si accorse
[55] affamati
[56] ammaestrate
[57] spasso
[58] gridandolo
[59] ultimo di una nidiata
[60] meravigliati
[61] schiacciarli
[62] toccandola
[63] piccola ape
[64] mandria
[65] sistemato
[66] biscia
[67] attenti
[68] sbrigatevi
[69] vedendo
[70] faccia
[71] svuotata
[72] scimmie
[73] spaventati
[74] tromba d'aria
[75] apertura di una vescica
[76] pupille socchiuse
[77] dando piccole botte
[78] ridacchiare
[79] si arrabbiava
[80] mettevamo fuori posto i capelli
[81] allegri e godenti


Ph ©piero carbone

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