sabato 14 novembre 2015

GIOVANNI MELI IL POETA, ANCHE PER GLI AMERICANI. Il libro di Marco Scalabrino per il bicentenario





Marco Scalabrino lo fa meritevolmente a suo modo,
con un libro
edito da una casa editrice che si propone di valorizzare il nostro patrimonio poetico e linguisitico.



Qui, si ripropone il suggestivo capitolo del Meli "americano"
 che per molti sarà una piacevole sorpresa.
Per gentile concessione dell'Autore e dell'Editore.




La fortuna americana di Giovanni Meli

di Marco Scalabrino


Ebbe pronta e larga fama in Sicilia Giovanni Meli e fu ben conosciuto e apprezzato in Italia e in Europa; la sua fortuna americana, viceversa, è storia recente.

L’organizzazione culturale statunitense Arba Sicula, nel corso degli ultimi 35 anni, ha dedicato ogni sua energia alla promozione della lingua e della cultura siciliane nel mondo; Gaetano Cipolla è l’anima di Arba Sicula. Già Professore di Lingua e Letteratura Italiana presso varie università americane (la St. John’s University di New York per ultima), Presidente dell’Associazione U.S.A. “Casa Sicilia”, della organizzazione culturale Arba Sicula nonché Direttore della omonima rivista bilingue (che ospita articoli in inglese e in siciliano) e del periodico Sicilia Parra, Ambasciatore culturale della Regione Sicilia nel mondo, vincitore di prestigiosi premi inclusi il “Talamone”, il “Thrinacria d’argento” e il “Proserpina”, organizzatore di conferenze e convegni su contenuti siciliani, animatore culturale, organizzatore di tour annuali nella sua isola d’origine, traduttore in inglese di parecchi poeti siciliani e fra loro: 
Nino Martoglio, Giovanni Meli, Antonio Veneziano, Nino Provenzano, Vincenzo Ancona, Senzio Mazza, Salvatore Di Marco, Nino De Vita e Piero Carbone, malgrado sia nato in Sicilia nel 1937 e sia emigrato negli Stati Uniti d’America nel 1955, prima del 1980 Gaetano Cipolla non aveva scritto una sola parola sulla Sicilia, né si era mai dedicato allo studio della lingua e della cultura siciliane.

Attorno al 1980, gli capitò di conoscere un gruppo di persone che aveva fondato Arba Sicula, lesse il famoso poema Ucchiuzzi niuri di Giovanni Meli e avvertì una indescrivibile emozione. Questo episodio gli fece comprendere lo spessore delle sue radici, il cui richiamo da allora non poté più ignorare, e da lì iniziò a dedicare sempre più tempo allo studio della poesia siciliana. 

Scandagliò così ambiti che eccedevano il suo ruolo di professore di italiano: non essendo un traduttore, imparò a tradurre; non essendo un linguista, fece degli studi critici sul linguaggio siciliano; non essendo un sociologo o uno storico, esaminò le tradizioni e la storia siciliane. 

E cosa ben più rimarchevole, nel cercare di definire i Siciliani e l’essenza del popolo siciliano, dovette interrogarsi su se stesso, dovette fare i conti con la propria identità, riuscendo, alfine, a superare i suoi pregiudizi nei confronti del dialetto.

Di Giovanni Meli, Gaetano Cipolla ha tradotto in versi inglesi e pubblicato (oltre a L’origini di lu munnu, The origins of the World, nel 1985) Moral Fables and other poems, nel 1988 e poi nel 1995, e Don Chisciotti and Sanciu Panza, nel 1986 e in una versione riveduta nel 2002. 

Scritti in inglese (è convinzione di Gaetano Cipolla che molti degli autori siciliani meriterebbero di essere meglio conosciuti sia nella loro terra che nel mondo), questi libri sono l’ennesima lampante prova del suo interesse e della sua passione nei confronti della cultura e della lingua siciliane.



Prima di cimentarsi nella traduzione del Don Chisciotti and Sanciu Panza e delle Moral Fables, Gaetano Cipolla traccia un essenziale excursus della figura, della vita e delle opere del Meli.
Giovanni Meli (mutua egli da Agostino Gallo) era umile e affabile e generoso con i suoi amici e con tutti. Era dotato di una fervida immaginazione e questa virtù, che egli usava per rifugiarsi nel mondo della poesia, gli permetteva di accettare le difficoltà della vita; i suoi versi, persino i più amari, gli sortivano un effetto catartico e la sua musa era un porto sicuro per la sua vela sballottata dalla tempesta. La stagione più felice della sua vita, un periodo di grandi successi, onori e amori, ebbe inizio allorché da Cinisi egli fece ritorno a Palermo. 

Già famoso, divenne il favorito della aristocrazia palermitana e la nobiltà e le belle dame gareggiavano per averlo ospite alle loro feste. 
La sua consumata arte e la padronanza assoluta del mezzo linguistico contribuirono alla creazione di molte delicate, erotiche odi del suo tempo, nelle quali, in rarefatte atmosfere di sospiri e di trattenuta sensualità, di parole più sussurrate che dette, il poeta celebra varie parti del corpo dell’amata. Esemplare della maestria del Meli, al cui linguaggio l’uso dei diminutivi e dei vezzeggiativi e di un variegato campionario di rime infusero nuovi smalto e delicatezza, fu l’ode Lu labbru:

Dimmi, dimmi, apuzza nica
Unni vai cussì matinu?
Nun c’è cima chi arrussica
Di lu munti a nui vicinu.

Tell me, tell me buzzing bee,
what so early do you seek?
There’s no redness yet appearing
on the nearby mountain peak.

Parimenti famose L’occhi, ispiratagli da Lucia Mogliaccio, duchessa di Floridia, con la quale probabilmente il Meli ebbe un romantico interludio:

Ucchiuzzi niuri,
Si taliati,
Faciti cadiri
Casi e citati;
Jeu muru debuli
Di petri e taju,
Cunsidiratilu,
Si allura caju!

Black loving eyes,
if you look coy,
houses and cities
you will destroy.
I’m but a wall
of stone and sand,
if I should crumble
please understand!

e La vucca:

Ssi capiddi e biunni trizzi
Su' jardini di biddizzi,
Cussì vaghi, cussì rari,
Chi li pari nun ci su'.
Ma la vucca cu li fini
Soi dintuzzi alabastrini,
Trizzi d’oru, chi abbagghiati,
Pirdonati, è bedda chiù.

Oh, those braids of golden hair
are a garden sweet and fair,
they’re so beauteous and rare
none comparison will dare.
But the mouth with eburnine
pearly teeth so neat, so fine,
golden braids that all outshine,
please don’t mind, ‘tis more divine.

Poesie come queste, la cui validità risiede nella valentia tecnica del poeta, nella musicalità del ritmo, nell’allusività del messaggio, nell’apparente semplicità del linguaggio che porta invece il peso di una lunga tradizione letteraria, sono una vera sfida per ogni traduttore.

Nel processo di rinnovamento della cultura siciliana del Settecento (puntualizza Gaetano Cipolla), il nesso più solido tra la cultura siciliana e quella europea fu il Meli; e questo il traduttore del Don Chisciotti and Sanciu Panza lo dimostra, con la perizia dello studioso zelante, attraverso un’analisi accurata di varie opere del Meli, dalla Fata Galanti alle Origini di lu munnu, dalla Buccolica alle Elegie, dalle Favuli murali al Don Chisciotti.
“La ricerca di un più vivido mezzo linguistico con il quale dare espressione al suo mondo interiore culminò – egli rileva – nella Fata Galanti, un poema bernesco in otto canti, scritto in ottave e ispirato all’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Molti dei tratti del Meli sono contenuti in questo poema: la sua attitudine per la satira filosofica e letteraria, la sua attenzione verso i problemi sociali, la sua personale aspirazione a una vita di pace e di tranquillità in seno alla natura, la sua vocazione alle scene idilliache e bucoliche”.



Il Don Chisciotti and Sanciu Panza di Gaetano Cipolla, Edizioni Legas, New York 2002, si apre con una estesa e pregevole introduzione dello stesso traduttore, che mira a inquadrare il Meli e le sue opere nell’ambiente storico, culturale e sociale del Settecento; segue la traduzione del Don Chisciotti e Sanciu Panza, opera definita “the meeting point between the principles of the Enlightenment and the ideals of a deeply conservative society” (il punto d’incontro fra i principi dell’Illuminismo e gli ideali di una società profondamente conservatrice). 
Oltre ai 12 canti che compongono il poema, Cipolla traduce altresì La Visioni, 56 ottave scritte tra il 1813 e il 1814, aggiunte dal poeta palermitano nell’edizione del 1814, come una sorta di esegesi atta a chiarirne gli scopi e lo spirito.

Nelle pagine introduttive, Gaetano Cipolla entra nel vivo della cosiddetta polemica gentiliana, nell’ambito della quale si schiera egli decisamente accanto al Santangelo e al Titone, osservando che “modern research has proved conclusively that Sicily, especially during the second half of the 18th century, was not the backward island completely cut off from civilization that thinkers such a Giovanni Gentile had supposed it was” (la moderna ricerca ha definitivamente provato che la Sicilia, specialmente durante la seconda metà del 18esimo secolo, non era l’isola arretrata, completamente tagliata fuori dalla civilizzazione, che taluni pensatori come Giovanni Gentile pensavano che fosse). Se da una parte (commenta Salvatore Bancheri) “conveniamo con Cipolla che la Sicilia del secolo diciottesimo non era né arretrata né sequestrata da ogni relazione col resto del mondo, nemmeno era però una piccola Francia illuministica; dall’altra ci sentiamo in dovere di fare una apologia del Gentile e del suo Il tramonto della cultura siciliana, lo scritto in cui viene usata la tanto bistrattata espressione “Sicilia sequestrata”.


È criticamente non corretto isolare questo giudizio del filosofo castelvetranese dal contenuto complessivo del libro, in quanto egli stesso, più avanti nell’opera, riconosce l’apertura dei Siciliani alla cultura europea: la Sicilia, osserva il Gentile, non era rimasta chiusa, come qualche volta s’è detto, alle idee che venivano d’oltralpe e sia Rousseau che Voltaire erano a Palermo, presso l’aristocrazia, letture di moda verso la fine del Settecento.

In tal modo il parere negativo del Gentile viene mitigato tanto da rendere vana la polemica, giacché entrambe le fazioni, ancorché da angolazioni diverse, approdano alle medesime conclusioni: i gentiliani fanno delle concessioni che ne suggeriscono un legame con il resto della cultura europea; il partito degli oppositori ne ammette la refrattarietà in taluni settori.

La figura del Meli che fuoriesce dall’introduzione del Cipolla è quella di un Meli europeo, un letterato i cui interessi e intenti culturali non furono esclusivamente di natura regionale, ma ben rappresentarono il clima intellettuale europeo.

Risulta interessante il raffronto tra il Don Chisciotti e Sanciu Panza meliano e il Don Quijote del Cervantes. Le due opere, scrive il Cipolla, “must not be seen as an original and an imitation, but rather as two different manifestations of the same archetype” (non devono essere viste come un originale e una imitazione, ma piuttosto come due differenti manifestazioni dello stesso archetipo).


Gaetano Cipolla considera la sua traduzione un atto di stima nei confronti del Meli e in particolare del Don Chisciotti e Sanciu Panza, un poema che è un microcosmo della produzione meliana, “a poem that reflects, perhaps more fully than any other of his works, the author’s personality and the conflict of his time” (un poema che rispecchia, forse più pienamente di ogni altro suo lavoro, la personalità poliedrica dell’autore e le contraddizioni del suo tempo).

Esso difatti può essere, ed è stato, esaminato come documento storico che incarna la relazione dinamica fra le idee dell’Illuminismo e gli ideali conservatori della società siciliana; come una nota sui costumi e sulle tradizioni di una società che fino a tempi recenti non era cambiata in maniera apprezzabile; come un significativo momento nella lotta fra le classi sociali; e come opera letteraria di considerevole portata nel solco di una tradizione con salde radici nello spirito italiano, il quale ha prodotto poeti del calibro di Ludovico Ariosto, Alessandro Tassoni e Francesco Berni (verso i quali lo stesso Meli riconosce i suoi debiti).


“In a microcosm”, il Don Chisciotti riproduce anche “the linguistic physiognomy of the poet” (in un microcosmo … la fisionomia linguistica del poeta): una lingua che sfugge a ogni tentativo di categorizzazione, ma le cui componenti essenziali sono la lingua letteraria italiana, mediata attraverso la tradizione arcadica, e il siciliano. 
Nella versione inglese, Cipolla riprende le molteplici interrelazioni tra queste due componenti della lingua meliana tramite l’uso accorto di forme arcaiche o gergali e il contrasto fra linguaggio elevato e linguaggio popolare.

Con deliziosa illustrazione di copertina (un piano medio di Don Chisciotti, lancia in resta) ad opera di Giuseppe Vesco, il lavoro di Gaetano Cipolla, che consta di oltre trecento pagine e presenta uno accanto all’altra il testo siciliano e la versione inglese, è magistrale e mostra la grande perizia del traduttore sia nel rendere l’agilità e le sfumature del verso meliano sia nel volgere il pensiero del poeta palermitano.
La traduzione del Cipolla acquista vieppiù valore grazie al pregevole saggio introduttivo che correda il volume, nonché all’ampio e intrigante repertorio di note al testo, a carattere critico ed esplicativo, e alla nutrita bibliografia che vi sono incorporati. Joseph Tusiani, nel suo commento apparso su un quotidiano nordamericano, definisce il lavoro del Cipolla una “impresa non lieve” nella quale il “sensibile e scaltrito traduttore sostituisce all’endecasillabo dell’ottava siciliana il pentametro giambico inglese e ci offre una traduzione scorrevole, agile e viva, fedele allo spirito del dialetto siciliano e all’incantesimo del testo originale”.



L’inventiva del Meli, l’abilità di catturare l’interesse sulle avventure del suo Don Chisciotti e Sanciu Panza, la freschezza del linguaggio, la sottile ironia, la vividezza delle descrizioni della natura siciliana, la saggezza del filosofo naturale e il tipico scetticismo si sono rivelati, invero, assai consoni all’animo di Gaetano Cipolla.
Perché, nondimeno, si interroga egli, il Meli scelse i due caratteri di Don Chisciotti and Sanciu Panza? Quando concepì il suo ambizioso progetto (assevera Cipolla) Meli era conscio dei rischi insiti in quella sua scelta; sapeva bene che il suo lavoro sarebbe stato giudicato dalla prospettiva del capolavoro del Cervantes.

Quei critici, però, (insiste Cipolla) che hanno valutato il Don Chisciotte siciliano attraverso il suo omologo spagnolo, che hanno guardato a lui come a una mera continuazione del Don Quijote, non hanno affatto compreso gli intenti del Meli e non gli hanno reso un buon servizio.
Il cavaliere siciliano aveva le medesime fattezze del suo predecessore spagnolo e tuttavia viveva in un’epoca differente e parlava una lingua differente; venne inoltre concepito in maniera differente e aveva differenti propositi da perseguire. Il carattere di Sancho Panza, viceversa, venne sottoposto a una metamorfosi maggiore, la più evidente manifestazione della quale fu la sua elevazione al rango del suo principale.

Il poema siciliano è intitolato (annota con perspicacia Cipolla) Don Chisciotti e Sanciu Panza; il romanzo spagnolo El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha, il nome di Sancho non vi appariva. Questo spostamento di enfasi (osserva il traduttore) è in realtà ben più importante di quanto, di primo acchito, possa apparire. 
Sicché i due lavori, si è detto, non devono essere visti come un originale e una imitazione, ma piuttosto come due differenti manifestazioni dello stesso archetipo. Don Quijote e Sancho Panza costituiscono, in effetti, una coppia di archetipo, una inseparabile e separata unione di opposti: Don Quijote non può esistere da solo. 
Noi siamo stati abituati a pensare a Sancho Panza come a una estensione di Don Quijote, a una appendice, a un personaggio complementare; ma, mentre nel poema del Cervantes Sancho occupa una posizione subordinata, intellettualmente e socialmente, rispetto a Don Quijote, nel poema del Meli Sanciu ne diviene il fulcro, assurge al ruolo di protagonista.



Ma è tempo, adesso, di venire al concreto della traduzione, riservandoci di integrare la stessa, di volta in volta, con le osservazioni del caso.
In tutto il corso della sua esistenza, e in quest’opera, Meli esalta la saggezza del senso comune, l’approccio mediano alla vita. Nel Canto III, Ottava 5, egli parla a tale riguardo attraverso Don Chisciotti:

Chiù chi si voli, chiù si pati, amici.
Lu riccu stissu, si la brigghia cedi
A li proprii disii, oh chi cuntrastu!
Martiriu ci addiventa lu so fastu.

The more you want, the more you suffer, friends.
And if the rich themselves gave a free rein
to their desires, what conflict there would be!
Their pomp would soon become sheer agony.

Il sottotitolo, “poema eroi-comicu”, palesa chiaramente le intenzioni dell’autore, quelle, ovverosia, di scrivere un lavoro che combini le modalità dell’epico e del comico. Il Don Chisciotti e Sanciu Panza, sottolinea Cipolla, è umoristico nel senso pirandelliano, come la rappresentazione, cioè, del “sentimento del contrario”. Meli invera in se stesso la figura di Giano; ognuno dei due eroi è l’incarnazione di opposte tendenze, contiene in sé il proprio contrario, mostra l’altra faccia della medaglia. Sanciu descrive Don Chisciotti nel Canto V, Ottava 28:

Cu tuttu ciò patìa d’un certu mali
Ch’essennu ‘n terra si cridìa a li celi;
Mendicu, si crideva un signurazzu;
Dijunu saziu, ‘nsumma era un gran pazzu.

A certain malady possessed him, though:
being on earth, he thought he was in heaven;
being a beggar he believed he was a lord;
non having eaten, full. In short: out of his gourd!

La componente empirica della personalità del Meli fu impersonata da Sanciu, l’uomo che si curò solo di quello che era il tempo presente, che credette unicamente a ciò che vide con i propri occhi e toccò con le proprie mani. Sanciu, il pragmatico, l’uomo che si atteneva ai fatti piuttosto che ai principi, era personalità più congeniale al Meli di quanto lo fosse, invece, quella del suo padrone. 
È questa la ragione per la quale il Meli enfatizzò il carattere di Sanciu, facendo di lui un eroe e ascrivendo a lui la saggezza, la sofferenza e l’esperienza più alte che uno scrittore può assegnare a un suo personaggio. Sanciu divenne per Meli la metà dominante della coppia e configurò l’alterazione degli elementi atta ad assecondare il suo atteggiamento psicologico e filosofico nei riguardi del mondo. Sebbene lo scetticismo fosse l’attitudine predominante in lui, non si può dire che fosse del tutto incapace di provare ottimismo. Il poeta, in effetti, venne perennemente dibattuto fra le due divergenti predisposizioni per l’intera sua vita; questa è la caratteristica più evidente di tutta la sua poesia e il Don Chisciotti e Sanciu Panza fu l’emblema di tale conflitto.

Creato di una foggia umoristica, Sanciu era un povero, ignorante, illetterato contadino; la sofferenza e l’esperienza ne fecero uno stimato, saggio e prudente uomo, un filosofo naturale. Questa metamorfosi può considerarsi completata nel Canto VIII, Ottava 13:

Dunqui Sanciu, si à locu tra li saggi,
Lu divi a la penusa sua carvana,
A li disgraziati soi viaggi,
A na testa sconnessa e ad una sana;
Dunqui li guai, l'affanni e li disaggi
(Misera, ahimè, condizioni umana!)
Su' la strata chiù brevi a la saggizza?
Virità chi ni copri d'amarizza!

If Sanciu has a place among the wise,
he owes it to his sore experience,
to his disastrous journeys, to a brain
that's unconnected and to one that's sane.
So then, do troubles, sorrows and privations,
the shortest route to wisdom represent?
(Alas, how bitter is our human fate!)
In shame our prideful heads we should prostrate.


Come uomo illuminato, che credette nella dignità dell’essere umano, e come medico, che poté appurare le condizioni di vita in Sicilia delle differenti classi, Meli deplorò la povertà, la malattia e la malnutrizione della povera gente e desiderò ardentemente che le sofferenze dei contadini e dei pastori fossero alleviate. 
In tutto il suo Don Chisciotti, il ricco, il potente e il blasonato sono costantemente denigrati, mentre i contadini e i pastori sono esaltati; le sue idee sociali, le idee che egli avallava con tutto se stesso, vi sono chiaramente espresse: la giustizia, il diritto di ogni persona al lavoro, l’istituzione di un tribunale internazionale per dirimere le controversie, l’abolizione delle guerre.

Don Chisciotti, l’uomo che vagheggiava di rimettere in sesto il mondo, morì di ernia, nel mentre che si ostinava a raddrizzare un vecchio bitorzoluto sorbo selvatico. Canto XII, Ottava 83:

Va ‘nnarreri lu sforzu, e in vrazza e in rini
Scinni e l’apri, e la ventri ci scunquassa
E fa sotari fora l’intestini,
Chi nàutra ventri formanu chiù bassa,
Chi penni e va criscennu senza fini,
Né spaziu chiù ntra li dui gammi lassa,
Ma l’occupa e dilata in strani formi,
Machina ria, voluminusa, enormi.

His striving traveled back through arms and kidneys,
splitting them up, and laying waste his guts,
and making his intestines burst their walls
to form a second belly lower still,
which sagged and sagged, unendingly,
until it left no space all between his legs:
a wild, expanding, changing, wormy mass,
a foul machine, voluminous and crass.


Giuseppe Pipitone Federico legge la morte di Don Chisciotti come un evento comico; scrive egli: “L’effetto estetico è sorprendente, mirabile la vis comica che scaturisce dal contrasto fra l’immaginaria grandezza dell’eroe, che si credeva destinato a memorabili imprese, e la sua ridicola fine”.
Gaetano Cipolla, registriamo, non concorda affatto con tale lettura. Io credo, ribatte egli, che l’enfasi, qui, non è comica, che le intenzioni del Meli non fossero tanto quelle di evocare risate, quanto quelle di sottolineare il senso di derisione per le delusioni dei cavalieri, abbinato alla compassione e alla comprensione. Quei dettagli grotteschi provocano una reazione mista nel lettore, il quale tende, sì, al sorriso, ma questo si spegne immediatamente sul suo volto.

Sulla lapide di Don Chisciotti, il Sanciu di Meli scrisse, Canto XII, Ottava 97, il seguente epitaffio: 

La cinniri ch’è sutta sta balata
Fu spogghia d’un Eroi di desideriu;
Chi mai sappi cunsari na ‘nzalata
Nonostanti pretisi in tonu seriu
Di cunsari lu munnu. All’urtimata,
La Parca esercitannu lo so imperiu,
Don Chisciotti ristau cripatu e mortu,
Sanciu zoppu e lu munnu ancora è tortu.

The dust that lies beneath this slab of stone
is what remains of one who would be Hero,
who never knew how to prepare a salad
and yet presumed in all sincerity
he could repair the world. And finally,
as Fate her own dominion exercised,
Chisciotti died and thus was laid to rest.
Sanciu was maimed; the world is still oppressed.

Miguel De Unamuno avrebbe detto che Giovanni Meli era reo di “Sanciopanzismo”; ma la verità è che Meli è sia Don Chisciotti che Sanciu Panza.
Il Canto XII, l’Ottava 105, chiude il poema:

Pirchì sennu e furtuna su’ dui cosi
Chi uniri mai si ponnu in un murtali;
Cussì lu giustu Giovi li disposi
Pri equilibrari la valanza eguali;
L'onestu e virtuusu avrà na dosi
Di paci, chi ci mitiga li mali;
Beni e ricchizzi nun avrà a catasta,
M'anchi lu pocu all’omu saggiu basta.

For wisdom and good fortune are two things
that cannot be united in a mortal.
That’s how they were arranged by righteous Jove,
to keep the scale in equilibrium.
The honest and the worthy man will have
a dose of peace to mitigate his woes.
Of wealth and riches he won't have the prize,
but little is enough for one who's wise.

Giorgio Santangelo asserisce che quest’ultima ottava è l’espressione dell’essenza del Meli. Essa contiene il “codice della saggezza umana che ispirò una disposizione fondamentale del suo animo”.
Il linguaggio del Meli è difficile da classificare.

Nel suo studio La lingua del Meli (Palumbo Editore, Palermo 1941), Salvatore Santangelo scrive: “Preso nel suo intero, il linguaggio del Meli è qualcosa di fluttuante ed eterogeneo, sul quale nessun giudizio può essere pronunciato”. Il risultato dei suoi sforzi risulta, di fatto, una mistura fra l’idioma letterario italiano, cioè il toscano, e il siciliano.

L’interrelazione tra queste due componenti rappresenta, statuisce Gaetano Cipolla, una essenziale caratteristica del linguaggio del Meli. In Don Chisciotti e Sanciu Panza, egli adotta una gran varietà di stili: vi ritroviamo bei passaggi lirici descrittivi della natura, che rimandano alla Buccolica; scene di battaglia di incontenibile energia e umorismo; scene di pathos e sofferenza; brani nei quali il Meli esibisce il proprio virtuosismo tecnico; passaggi erotici e galanti che rimandano ai delicati timbri delle Odi, quali la descrizione della bellezza di Dulcinea, Canto IV, Ottave 43, 44 e 45:

Sia bianca comu lu latti ntra la cisca,
Liscia comu lu rasu di Fiorenza,
Dilicata, gentili e sia manisca,
Ma dritta e longa e bella di prisenza,
Picciotta, culurita, sana e frisca,
Capiddi biunni e di lunghizza immenza;
Occhiu spaccatu, niuru e penetranti,
Stritta di cintu e di pettu abbundanti.
Chi lassassi unni passa na fragranza,
Comu fussi di zàgari e violi;
Chi quannu canta sula ntra na stanza
Vincissi in armunia li rusignoli;
Sia disinvolta 'mmenzu a l’eleganza;
Saggi, duci e galanti li paroli;
Gentili li maneri, onesti e santi;
Sia na tiranna, però sia un’amanti.
Cussì dittu, imitannu in fantasia
Lu gran Pigmaliuni, si furmau
Na biddizza perfetta, anzi una Dia
E milli e milli doti ci adattau;
La chiamava pri nomu Dulcinia
Pri la dulcizza granni, chi pruvau,
Quannu si la supposi; poi curtisi
Del Tobboso pri titulu ci misi.

Let her be white as milk inside a pail,
and silken smooth as satin spun in Florence,
and delicate and gentle let her be and light,
but straight and tall and beautiful to see,
and with good color, healthy, young and fresh.
Immeasurably long her fine blond hair. 
With huge, black piercing eyes let her be blessed,
small round the waist, abundant at the breast.
And let her leave a fragrance where she passes
of orange blossoms and of violets;
and when alone she sings inside her room
let her in sweetness nightingales surpass.
In elegance let her be quite at ease;
and let her words be gallant, wise and sweet.
With honest, kindly ways all full of piety:
a cruel tyrant, but a lover let her be.
Once this he'd said, he formed within his mind
in imitation of the great Pygmalion,
a perfect beauty, rather a true goddess
endowing her with countless qualities.
He called her with the name of Dulcinea,
because of the great sweetness he had felt
when he imagined her. As a kind deed
Toboso”, as her title, he decreed.

Nella edizione del 1814, Giovanni Meli aggiunse al Don Chisciotti e Sanciu Panza un epilogo, intitolato La Visioni, nel quale egli immagina che Sanciu gli sia apparso per raccontargli le sue ultime avventure. È ragionevole supporre – soppesa Gaetano Cipolla – che gli obiettivi del Don Chisciotti fossero stati travisati e che il Meli abbia aggiunto le cinquantasei ottave della Visioni al fine di chiarire gli obiettivi che aveva in mente quando scrisse il poema: una satira, ovvero, contro i ciarlatani e gli pseudo scienziati.

Le asserzioni di Meli nondimeno, scritte nel 1813, ventisei anni dopo la pubblicazione dell’opera, non debbono essere necessariamente prese come la pura verità. Per un uomo che alla fine dei suoi giorni dovette guardare alla ricerca della felicità sulla terra come a una trizziata eterna (così egli scrisse in una lettera all’amico sacerdote don Francesco Paolo Nascè), dovere ammettere di avere coltivato illusori desideri circa la giustizia terrena deve essere stato assai penoso.

È sintomatico in ogni caso (oltremodo interessanti le osservazioni di Gaetano Cipolla!) che Sanciu Panza, e non Don Chisciotti, sia stato ad apparirgli. È lui l’eroe meliano; nella battaglia tra l’idealismo e il materialismo, quest’ultimo vince.

Meli, leggiamo l’Ottava 46 della Visioni, credette di essere il primo ad avere capito la vera lezione morale contenuta nel Don Quijote:

Pirchì ‘un c’è statu nuddu sinu ad ora
Chi ci à saputu fari li commenti
E la moralità cacciarni fora,
Chi sta chiusa in ridiculi accidenti.
Dirremu, per esempiu, chi ’un ristora
Lu bonu vinu e chi nun vali a nenti
Pirchì in locu di un vasu riccu e adornu
Posa o si vivi in ciotula di cornu?

Because there has been no one until now
who has known how to write a gloss of it
and draw the moral lesson that is locked
in comic and ridiculous adventures.
Shall we then say, for instance, that good wine
does not refresh, or that it is just worthless,
if rather than in goblets made of gold
we drink it from a horn bowl, plain and old?

In parole povere, il poeta invita il lettore a separare il diamante dalla montatura che lo incastona, a scorgere il valore delle idee del Don Chisciotti malgrado esse siano adagiate su ridicole avventure, a ravvisare la bontà delle sue massime a dispetto dell’insania delle sue azioni.
Nell’Ottava 40 della Visioni, Sanciu esprime un giudizio su Cervantes che può essere usato per ricostruire la poetica del Meli:

Scervantes, chi pretisi sbarbicari
Lu pregiudiziu dominanti allura
Di l’erranti bravuri militari,
Nun canuscìa di l’omu la natura,
Chi tra lu menzu nun ci sa marciari;
Pigghia sempri un estremu chi l’oscura
E si da chistu si distacca e sposta
Sauta e rumpi a l’estrema parti opposta.

Cervantes, who intended to uproot
the dominant delusion of his time
- the martial prowess of the Errant Knights -
man’s very nature did not understand.
Man cannot take the middle of the road.
He chooses an extreme that humbles him.
If from this point he parts and steps aside,
he jumps completely on the other side.


Scritte in versi, nelle Favuli murali il Meli espresse il mondo sapiente e discreto degli animali.
Vi celebra egli la saggezza degli animali i quali vivono, liberi da colpe, obbedendo alle leggi naturali, prendendosi cura di loro stessi senza arrecare danno gli altri.
L’edizione di Gaetano Cipolla, Moral Fables, presenta uno accanto all’altra il testo siciliano e la versione inglese.

Attilio Momigliano non esitò a definire le Favuli murali del Meli “la più alta collezione di favole della letteratura italiana” e per Giulio Natali “Meli si piazza molto in alto non solo fra i favolisti dialettali italiani, ma tra gli antichi e i moderni favolisti del mondo”. 
Nel volume Settecento: Storia e Testi, Laterza, Bari 1973, le Favuli murali sono considerate un autentico capolavoro e l’autore del pezzo vi scrive: “Vi si possono rintracciare Esopo, La Fontaine e altri, ma le favole del Meli sono inconfondibili per il loro lirico realismo filtrato attraverso un linguaggio affettuoso e senza asprezza”.
Meli, che ammise il suo debito nei confronti di Esopo e di La Fontaine, scelse verosimilmente la favola perché tramite essa egli riuscì a dare voce ai suoi veri sentimenti riguardo alla corruzione che osservava nelle corti, allo sfruttamento dei poveri, ai soprusi della nobiltà o all’inettitudine dei governanti. L’ammirazione del Meli per Esopo è esplicitata nel Canto 7, Ottava 48, del Don Chisciotti e Sanciu Panza:

È veru ca su’ zoppu e senza nasu,
Poviru servu e tuttu spiddizzatu;
Ma ci fu Esopu ntra lu stissu casu,
Schiavu, pizzenti e forsi chiù sminnatu.
Cu tuttu chissu ognunu è persuasu
Chi un filosofu eguali nun c’è statu;
L’àutri su’ tutti chiacchiari e palori,
Chistu alletta, 'struisci e va a lu cori.

It's true that I am lame, without a nose,
a servant, poor, with clothes all torn to shreds,
but Aesop was himself in this condition,
a wretched slave, more lame than I, perhaps.
Nevertheless, we all are quite convinced
that as philosopher he had no peer.
The others are all words and idle chatter
but he attracts, instructs and says what matters.

Francesco Biondolillo, nei suoi Studi su Giovanni Meli, loda la brevità, l’immaginazione, l’inventiva delle Favuli murali del Meli e conclude che in esse “egli fu capacissimo di esprimere la sua anima e i suoi pensieri, colorando l’una e gli altri con la grazia e con lo spirito del suo temperamento”; e Gisella Padovani, in un pezzo intitolato L’itinerario culturale di Giovanni Meli, appunta che il Meli, come altri scrittori, comprese la validità della favola come mezzo di espressione e intese, tramite le sue, esercitare una influenza sulla società siciliana, offrendo, sulle orme dello scrittore inglese Joseph Addinson, intrattenimento e saggezza a tutte le classi sociali, al fine di ottenere un effetto di livellamento delle loro differenze.

Meli non risparmia nessuno: né nobili, né legislatori, né preti, né potenti, né governanti; ma le sue Favuli murali non sono il lavoro mordace di un severo moralista. “Semplicemente” egli sta dalla parte dei poveri e degli oppressi e non si astiene dal denunciare la verità: stigmatizza l’ipocrisia (LXII, La taddarita e li surci), la vanità (LIV, La musca), l’ingratitudine (V, Lu surci e lu rizzu), l’ambizione (XIII, Li cani e la statua), la testardaggine (LI, Lu sceccu e l’api), la stupidità (LXXII, La cursa di l’asini), l’intolleranza (LII, Lu corvu biancu e li corvi nìuri), l’egoismo (VIII, Lu gattu, lu furisteri e l’abati), l’avidità (XVII, Esopu e l’aceddu lingua-longa), la codardia (LVIII, Lu cervu, lu cani e lu tauru).

Nella introduzione a Le bestie gli uomini le favole, Tringale Editore, Catania 1978, Vincenzo Di Maria usò una magnifica immagine per descrivere l’ingannevole leggero tocco del Meli; egli scrisse: 
“La sua penna è come un fioretto che penetra di punta e par che neppure s’avverta per la sottigliezza della lama”. 

Proprio a motivo della leggerezza del suo tocco, l’impegno politico del Meli non è stato compiutamente analizzato; un attento esame delle favole rivela, infatti, che oltre un terzo di loro è un commento sui problemi politici e sociali della gente di Sicilia.



La Favula LXXXIV, Lu codici marinu, riferisce delle difficoltà incontrate da un gruppo di sardine accusate del massacro di un grosso tonno perché trovate vicino alla sua carcassa. È un lucido resoconto di quei meccanismi sociali che contribuirono alla creazione di un ingiusto e per nulla etico sistema basato sul principio che il potente fa la legge. Le sardine (la gente comune) sono vittime di un triunvirato composto da un vessatorio sistema di tassazione, dai granchi (giudici e legislatori) e dai pesci grossi (nobili e politici):

In fundu di lu Balticu e a li spaddi
Di na muntagna in mari sprofundata,
Cuverta di un vuschittu di curaddi,
Vitti na turba grandi radunata
D’insetti molestissimi forensi,
Chi trattava un processu tra sti sensi:
Si truvau divoratu un grossu tunnu
E pri st’accusa foru processati
Pochi sarduzzi ritruvati a funnu
Supra d’un ossu cu li mussi untati.
Lu Fiscu, ch’è un strumentu chi vi frica,
Ci apriu di tunnicidiu la rubrica.

Deep in the Baltic Sea, against a cliff,
which had sunk deep into the ocean’s shroud,
and which was covered by wild coral reef,
he spied the gathering of a large crowd
of very noxious insects of the forum,
who were a case debating with decorum.
A heavy tuna fish had been devoured
and for this crime, they had accused sardines
who had been seen as they the bottom scoured
with greasy mouths from chewing on some bones.
Taxation – vexing tool in people’s side –
indicted the sardines for tunacide.

Il tornaconto privato in opposizione al benessere pubblico è tema ricorrente nelle favole del Meli.
Maturo di anni – rileva Giuseppe Pipitone Federico –, assetata l’anima di idealità, sogno fulgido e dolcissimo del Poeta è quello di uno stato che liberamente si regga sulla pace, frutto dell’ossequio delle leggi contrapposto all’anarchia. Nella Favula LX, Lu cardùbulu e l’apa, un cardùbulu, che desidera essere libero dalle restrizioni della società, e un’ape, che pensa che la vera libertà può esistere solo in seno a una società organizzata, sono in contrasto; alla fine l’ape esclama:

Si di lu beni pubblicu
Si perdi in nui l’idia,
O casa di diavulu,
O chiamala anarchia.

If we lose sight of the good
of the community,
then either devil’s home
or call it anarchy.

L’avidità di pochi membri di un branco provoca, ne L’alleanza di li cani, Favula LXXXI, lo sfaldamento di una società di cani che, ben organizzata, aveva ottenuto sino ad allora grande successo nell’attaccare le bestie più forti e più grosse:

Or’avvinni (pri quantu lu Vicchiuni
Ntra lu tarlatu miu libru truvau)
Chi di sti cani ci ni fu un squatruni
In cui la gran catina si smagghiau,
Pri l’abbusu di avirsi postergatu
Lu pubblicu vantaggiu a lu privatu.
Pirchì turnannu cu la preda ogn’unu
Si n'ammucciava deci e vinti parti
E dicchiù si spacciava pri dijunu
Pri dumannari l’autra chi si sparti;
Perciò la preda nun putìa bastari
Pri tutta la gran chiurma saturari.

It happened that among the dogs, one pack
(as far as the Old Man could ascertain
in my moth-eaten book) went off the track,
and managed to break up the social chain,
through the abuse of placing private good
above the interests of the brotherhood.
Thus every dog returning with its prey,
a tenth or twentieth part would put aside.
What’s more he’d claim he’d fasted the whole day,
to get a part of what they would divide,
and that is why the daily prey was found
not large enough to feed that many hounds.


La Favula LXIII è una conversazione tra due lupi. Risentiti per la reputazione che l’uomo ha affibbiato a loro come bestie fameliche e predatrici, cominciano ad accusarlo di essere un ingrato, una creatura crudele e vorace, che uccide gli animali per divertimento e non per necessità e preda ogni essere che vive nell’aria, nel mare e sulla terra; l’amara conclusione dei lupi è che l’uomo è “due volte lupo”. 
Le è simile la Favula LXXXIII, La tigri tra na gaggia di ferru

Le due Favuli, atipicamente, sono le sole in terza rima, cosa che suggerisce che sono state ambedue scritte nello stesso periodo, ovvero prima del 1787. Eccone alcuni estratti:

A tempu chi l’armali discurrevanu,
Dui lupi, ntra na grutta ‘ncrafucchiati,
‘Nzemmula sti discursi si facevanu:
“Nui semu veramenti diffamati:
Cui ni voli lu sangu e cui la peddi;
‘Nzumma semu dui testi abbanniati.
Facemu straggi, è veru, di l’agneddi,
Ma ch’avemu a muriri di miciaci?
S’ ‘un manciamu, pri nui lu munnu speddi.
Manciati, ni dirannu, oriu e spinaci;
Chisti ‘un su' nostru pastu, e chi curpamu?
L’à fattu la Natura, vi dispiaci?
Dispiacitivi d’Idda, nui ch’entramu?
Si ccà c’è culpa, è sua; lu nostru coriu
Nui cu fari li latri arrisicamu.
L'omu, chi sempri adùla e duna 'ncensu
Sulu a se stissu, vistu chi nun spunta
Lu pretestu, chi l’autri ‘un ànnu sensu
N’à truvatu unu novu: osserva e cunta
Li denti di l’armali, si su' fatti
A pala, o puru a chiovu cu la punta:
Decidi chi li denti larghi e chiatti
Su' distinati a manciar’ervi e frutti,
E li puntuti su' a li carni adatti;
Dipoi cunchiudi chi li specii tutti
Di denti immaginabili l’àv’iddu,
Perciò l’onnipossibili s’agghiutti.
….......
Pirchì dunqui ni mancia chiù di nui?
Pirchì arriva a manciarisi li quarti
Di la sua propria specii?” “Passu passu,
L’autru ripigghia, ‘un smuvemu sti carti:
L’omu è dui voti lupu, e ccà ti lassu.”

In times gone by when animals conversed,
two wolves were hidden well inside a cave,
and in these musings deeply were immersed:
Our species is to tell the truth maligned.
Men want our blood, they want our very hide.
We're like the heads of the most wanted kind.
That we kill lambs can never be denied,
but what are we supposed to do? Starve, then?
Not eating is like saying we had died.
Eat spinach or some oats, will say some men,
but that is not our food. Are we to blame?
It's nature willed it so. If in your ken
someone’s at fault, complain to nature, aim
your blame at her, not us, for when we steal
upon our hides someone may put his claim.
Failing pretexts that senses hold no sway
in beasts, man, who is always fawning on
and flattering himself, will promptly say
that he has found a new and truer one:
by studying and counting every tooth,
determining the teeth’s shape one by one
and seeing if they’re shovel-like and smooth,
or if they're pointed and as sharp as nails,
the wide and flattened teeth – man will conclude –
are destined to eat fruit and grass in dales,
but pointed teeth were meant to savor meat.
So man determined that in all details
every requirement his teeth would meet
and thus he swallows everything in sight.
….......
So then why does he swallow more than us?
And quarters of his species he presumes
to go on eating?” “Oh, let’s not discuss
that part”, the other said. Don’t raise the subject!
Man's twice a wolf and lots more dangerous!

Ne La tigri tra na gaggia di ferru, Favula LXXXIII, una tigre in gabbia si difende dall’accusa di ferocia e di crudeltà ricordando come gli uomini siano più sanguinari di lei:

Tra na gaggia di ferru carcerata
Una tigri frimìa. Lu so custodi
Ci dissi: Scatta ddocu, scelerata;
Tu chi tra sangu e straggi trischi e godi
Diri osi chi la vita a sostiniri
Àutri mezzi nun trovi ed àutri modi?
Ma pirchì sazianduti a doviri
La tua ferocia crisci e a varia e a nova
Straggi ti porta sempri a incrudeliri?”
Ci rispusi la tigri: Rinfacciari
Nun ti vogghiu li straggi e crudiltà
Chi soli l’omu all'àutri specii fari,
Né chiddi chi a la propria specii fa;
Ma ti parru di chiddi sulamenti
Chi teni occulti tra la voluntà,
Pirchì nun pò spiegari apertamenti
Comu mia, stannu chiusa tra firrati,
Tra li liggi cioè ch’avi presenti.”

A tiger was imprisoned in a cage
of steel and writhed. Her guardian exclaimed:
You bloody beast (may you burst out of rage!)
who live and who enjoy to kill and maim,
that for your kind there are no other deeds
through which you can survive, how can you claim?
So why when you have satisfied your needs
at will, does your ferocity grow more
and on increasing cruelties just feeds?
The tiger answered him: I will not deign
to name the slaughters and the cruelties
that man on other species can ordain,
nor those against the species that is his,
I will speak only of those that are found
well hidden in his secret strategies
because on them he clearly can’t expound,
as I can, held inside this iron fence,
considering the laws by which he's bound.



Nella Favula XXXII, L’ursu e lu ragnu, il ragno offre i suoi servizi all’orso per tenerne la caverna libera da fastidiosi piccoli insetti …

Ma quannu vidi poi chi vespi ed api
Tràsinu franchi, comu fussi apertu,
Dici: Sta riti d’ingiustizia sapi;
Teni a frenu li picciuli, né vali
Pri li grossi, chi fannu maggiur mali.
Cunchiudu: O tutti o nuddu. A disonuri
Jeu tegnu, ed a viltà, lu dominari
Li deboli e li vili. Tu procuri
Lu sulu to vantaggiu e voi lasciari
La taccia a mia di vili e di tirannu?
Sfunna e vattìnni pri lu to malannu.”

But when he sees that wasps and bees
fly in unchecked as through an open door,
he says: This net smells of inequities.
It does control the small, but can’t disarm
the larger ones who cause much greater harm.
So I conclude: All or no one! I say
it's a dishonor and a cowardice
upon the weak and lowly to hold sway.
You’re seeking only your own benefice,
blotting me as a tyrannical and base.
Clear out and catch your death some other place!

Il gatto è, per Meli, il simbolo per eccellenza dell’inganno. Nella Favula LXIV, La surcia e li surciteddi, un topo, che sta cercando di inculcare nei suoi topini la paura della bella ma ferale bestia, dice loro:

Di tutti l’animali chi ci sunnu
Chistu è lu chiù terribili: nun cridi,
Né cridiri lu pò cui nun à munnu!
A sti cudduzzi torti ‘un dari fidi;
Guàrdati di sti aspetti mansueti;
L’occhiu è calatu, però nun ti sbidi.
Chisti su' sanguinarii, inquieti,
Crudi, avari, manciuni, spietati,
Tradituri, latruni ed indiscreti.

Among all beasts he’s the most troublesome,
the worst on earth. This truth you can’t believe
unless you’ve learned of life a minimum.
Don’t trust such hypocrites! Don’t be naive!
Of such tame looks and manners be on guard!
Their eyes seem closed, but all things they perceive.
They are bloodthirsty, restless and rock hard,
traitorous, thieving, heartless, indiscreet,
selfish and greedy and without regard.

Il Meli, ribadisce Cipolla, occupa indubbiamente un posto preminente fra i poeti siciliani.

Il suo mondo spirituale, ha sostenuto Giorgio Santangelo nella sua introduzione alle Opere del Meli, Rizzoli, Milano 1965, “non può essere compreso senza che lo si contestualizzi sullo sfondo della storia delle idee in Europa”. 
In Sicilia un piccolo gruppo di intellettuali aveva iniziato un dialogo non solo con i loro omologhi in Italia, ma anche con quei filosofi in Francia e in Inghilterra i cui lavori avevano creato un nuovo clima intellettuale. 
Bacon, Descartes, Leibnitz, Wolff e Rousseau erano letti avidamente a Palermo e parimenti gli scritti di David Hume, Diderot, Voltaire, Condillac, D’Alembert e Helvetius; costoro, i quali esercitarono una forte influenza sul Meli, rappresentarono la sua connessione europea. 
Gli eventi parigini del 1789 trovarono, però, scarsi sostenitori fra gli intellettuali siciliani; i più, il Meli incluso, li condannarono. 
Il poeta palermitano altro non fu che il prodotto del suo tempo, la perfetta incarnazione delle dicotomie che scossero gli intellettuali siciliani della seconda metà del diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo secolo. Il Don Chisciotti and Sanciu Panza è il punto d’incontro fra i principi dell’Illuminismo e le idee di una società profondamente conservatrice.

“Se si consultano i registri di dogana e di polizia – apprendiamo da Leonardo Sciascia e dal suo libro-intervista, La Sicilia come metafora, Mondadori 1979 – si constata che l’importazione di libri francesi è sbalorditiva: Rousseau, Voltaire, l’Encyclopédie, Montesquieu. Stendhal dirà che i libri in francese si vendevano poco in Italia, tranne che in Sicilia, dove ogni buon libro toccava il centinaio di copie.”
“La cultura illuministica – rimarca Antonino Infranca, in Giovanni Gentile e la cultura siciliana, Edizioni L’ED 1990 – arrivò in Sicilia, ma non ne arrivarono gli influssi migliori, cioè le istituzioni giuridiche, che, laddove giunsero, si radicarono nelle abitudini dei popoli e contribuirono a mutare i rapporti sociali e politici tra il potere e i cittadini. In Sicilia giunse un tipo preciso della cultura illuministica, cioè l’illuminismo delle corti, del potere, quello che è stato definito il despotismo illuminato. Si trattava, però, di un illuminismo di maniera, direi di facciata, che non intaccava affatto i rapporti politici e sociali esistenti nell’isola.”

Da Giovanni Meli, La vita e le opere, Edizioni Drepanum, Trapani 2015

Quarta di copertina


Foto: statua di Giovanni Meli collocata nell'atrio del Palazzo delle Aquile a Palermo.
ph ©piero carbone







Nessun commento:

Posta un commento